Un giorno o l’altro scriverò un articolo che parli esclusivamente dei grassi, perché ci sono tante informazioni inesatte in merito e sarebbe bene chiarire alcuni punti fondamentali.
Nell’articolo di oggi mi focalizzerò a parlare di un particolare tipo di grassi: i tanto celebrati omega-3.

Gli omega-3 sono grassi polinsaturi a lunga catena, indispensabili per il mantenimento dell’integrità delle membrane cellulari. L’interesse per questo tipo di grassi ai fini della salute è nato intorno agli anni ’70, quando indagini alimentari condotte sugli Inuit (popolazioni artiche di cui fanno parte gli Eschimesi) stabilirono una correlazione tra elevato consumo di pesce grasso e protezione da malattie cardiovascolari. L’alimentazione degli Inuit era (ed è tuttora) composta per la quasi totalità da proteine e grassi animali a causa di necessità ambientali: in un clima tanto rigido, che tipo di agricoltura potrebbe sopravvivere? Gli scienziati rimasero perplessi nel constatare che pur cibandosi di elevatissime quantità di grassi animali queste popolazioni hanno un’incidenza di patologie ischemiche e cardiovascolari pressoché pari a zero: la quota di grassi rappresenta circa il 60-70% delle calorie giornaliere per gli Inuit, contro il 30-35% di una tipica dieta occidentale. Come si poteva spiegare questa correlazione, scoperta proprio negli anni in cui i grassi animali venivano additati indiscriminatamente come fattore di rischio pressoché esclusivo per infarto e ictus?
Studiando la composizione chimica dei grassi del pesce e dei mammiferi marini su cui si basa l’alimentazione degli Inuit, gli scienziati scoprirono che si trattava di molecole diverse rispetto a quelle predominanti nel grasso di mammiferi terrestri; infatti, mentre gli animali marini hanno una prevalenza di acidi grassi polinsaturi, quelli terrestri ne presentano piccole percentuali a favore di un’abbondanza di acidi grassi saturi. I ricercatori ipotizzarono che questa differenza nella conformazione chimica potesse avere un effetto diverso sull’uomo a seconda che introducesse o meno grassi polinsaturi nella sua alimentazione.
Centinaia di studi successivi dimostrarono effettivamente che i grassi polinsaturi hanno un effetto benefico nei confronti di patologie cardiovascolari, dal momento che contribuiscono a ridurre alcuni fattori di rischio strettamente riconducibili ad eventi coronarici. Questo, ovviamente, fece la gioia delle industrie farmaceutiche che cominciarono a produrre integratori di questi acidi grassi e a promuoverne il consumo. Non solo: parallelamente l’industria alimentare cominciò ad addizionare di grassi polinsaturi ogni tipo di prodotto, dalla margarina al latte, dai biscotti per la colazione alle zuppe preconfezionate.
Tutto questo è stato veramente efficace a ridurre le morti a seguito di ictus e infarto? La risposta è molto più complessa di quello che si possa pensare.

Prima, però, credo sia bene fare un veloce riassunto dei tipi di grassi esistenti e delle loro fonti alimentari, di modo da avere una panomarica chiara.
– I grassi saturi sono contenuti principalmente in prodotti animali: burro, lardo, pancetta, carne, formaggi. Troviamo grassi saturi anche nel mondo vegetale: lo stesso olio di oliva ne contiene circa il 14%; le fonti vegetali a maggior contenuto di saturi sono l’olio di palma, di cocco e di colza.
– La fonte principale di grassi monoinsaturi nell’alimentazione mediterranea è l’olio extravergine d’oliva; sono i grassi che hanno maggiore effetto salutistico nella prevenzione delle patologie cardiovascolari.
I grassi polinsaturi possono essere della serie omega-3 o omega-6:
– Gli omega-3 sono contenuti principalmente nel grasso di pesce; nel mondo vegetale le noci e i semi di lino ne sono una buona fonte.
– Gli omega-6 sono contenuti in alte percentuali negli olii vegetali (olio di girasole, di colza, di soia).

Esiste poi un’ultima categoria di grassi che in natura si trova in bassissime percentuali (sono pressoché inesistenti), ma la cui presenza aumenta esponenzialmente quando si sottopone qualsiasi tipo di grasso a trattamenti quali cottura ad alte temperature (ad esempio fritture) o idrogenazione (ad esempio margarine). Sono i cosiddetti grassi trans: gli unici grassi che effettivamente rappresentano un rischio concreto per la salute , in quanto aumentano tutti i fattori di rischio di patologie cardiovascolari e infiammazione organica. La principale -se non unica- responsabile della presenza dei grassi trans negli alimenti è l’industria del cibo: grazie al processo di idrogenazione è infatti possibile conferire agli olii vegetali di basso costo le stresse proprietà tecnologiche (non nutrizionali!) del ben più costoso burro. Dopo l’allarme per la pericolosità dei grassi trans, l’industria ha messo a punto due tecniche alternative all’idrogenazione (cristallizzazione frazionata ed interesterificazione): notate bene che anche questi processi portano alla formazione di grassi trans, pur se in misura minore rispetto all’idrogenazione. Leggere tra gli ingredienti di un prodotto “olii e grassi vegetali non idrogenati” non è garanzia di assenza di grassi trans! Purtroppo gli alimenti industriali che non li contengono sono ben pochi, provate a controllare voi stessi le etichette di crackers, grissini, merendine, biscotti, creme alla nocciola, pizze surgelate, gelati confezionati e via dicendo.

Torniamo ora agli omega-3 del pesce.
Come ho detto, la scoperta che questi acidi grassi erano in grado di ridurre i fattori di rischio correlabili a eventi coronarici fece la fortuna dell’industria farmaceutica e alimentare, ma non si tenne conto (o si ignorarono) due importantissimi fattori: in primis che “se un po’ fa bene non significa che tanto fa meglio”, e in secondo luogo che la bassa incidenza di malattie cardiovascolari tra gli Inuit non era dovuta al consumo di omega-3, bensì a quello di pesce! Notate la differenza?
Mi spiego meglio: non esiste un quantitativo giornaliero raccomandato di omega-3 per il semplice motivo che in sé e per sé non sono né benefici né nocivi. Se inizialmente vi fu un’ondata di entusiasmo nei confronti di questi grassi miracolosi, la questione fu poi ampiamente ridimensionata: a essere realmente importante non è il quantitativo assoluto di omega-3 o omega-6 o grassi saturi o monoinsaturi, bensì il rapporto esistente tra le diverse parti. Nello specifico, un corretto rapporto tra omega-3 e omega-6 si è rivelato essere anti-infiammatorio e dunque positivo per la salute. Questo significa che tanto l’eccesso quanto il difetto di una delle due parti determina lo squilibrio del rapporto, che di conseguenza può avere effetti anche opposti a quelli auspicati. La questione è talmente complessa che gli stessi scienziati non sono concordi a definire quale sia il rapporto più benefico per la salute: c’è chi dice 1:1 (ossia introdurre quantità uguali di omega-3 e omega-6), c’è chi dice 1:3 (ossia per ogni grammo di omega-3 si dovrebbero introdurre 3 grammi di omega-6). Posto il fatto che anche se non ci fossero dubbi sarebbe comunque impossibile stimare con certezza matematica quanto ciascuno di noi ingerisce dell’uno e dell’altro, quello che è chiaro è che attualmente la dieta occidentale possa tristemente vantare un totale squilibrio di omega-3 e omega-6: il rapporto è mediamente di 1:10. Le cause potrebbero essere due: o una carenza di omega-3 nell’alimentazione media, o un abnorme eccesso di omega-6. Alla prima ipotesi c’è una soluzione rapida: l’integrazione di omega-3 sottoforma di pillole o alimenti fortificati (ed è quello che effettivamente si è promosso). Se invece fosse corretta la seconda possibilità la questione sarebbe molto spinosa per l’industria alimentare, dal momento che i famigerati “olii e grassi vegetali (non idrogenati)” non sono solo fonte di grassi trans, ma anche di omega-6 in dose massiccia.
In realtà, anche in questo caso è difficile stabilire quale delle due ipotesi sia corretta: probabilmente lo sono entrambe, anche se ci sono buone ragioni per sopporre che l’aumentato introito di omega-6 da prodotti confezionati giochi un ruolo maggiore.

Torniamo però alla provocazione che ho lanciato prima: nell’ambito di un’alimentazione bilanciata e sana, che cerchi il più possibile di evitare i prodotti confezionati, a fare la differenza per la salute sono gli omega-3 o gli alimenti che contengono omega-3? A questo interessante quesito ha risposto una review del 2009 che ha indagato i risultati provenienti da ben 45 diversi studi su omega-3, pesce e rischio cardiovascolare, per un totale di circa 730 mila persone coinvolte.
Tenuto conto dei risultati di questi studi, la colossale review ha concluso che

“(…) apporta più beneficio alla salute il consumo di pesce anziché l’esclusiva integrazione di omega-3; benché il meccanismo non sia ancora stato chiarito, è probabile che nel pesce ad essere veramente protettiva sia l’interazione degli omega-3 con altri nutrienti in esso contenuti, e non la sola presenza di questi acidi grassi. Il consumo di pesce è stato correlato a minori livelli di trigliceridi, colesterolo LDL, aggregazione piastrinica, aritmia cardiaca, indiammazione, funzione endoteliale e pressione sanguigna (tutti fattori di rischio per infarto, ictus ed eventi coronarici)”.

Se da un lato questa review ha confermato che sia l’alimento completo a far bene alla salute, e non l’estrazione di una sua singola molecola, dall’altro mette anche in allerta circa la salubrità del pesce attualmente in commercio. Purtroppo l’inquinamento di mari e oceani si riflette nella qualità del pesce, che risulta essere maggiormente contaminato da tossine e metalli pesanti come il mercurio rispetto a cent’anni fa. Alla luce di ciò, concludo quest’articolo con qualche consiglio pratico.

Quale pesce scegliere?
– Evitate tonno (sia in scatola che fresco), pesce spada ed altre specie ittiche di grossa taglia: vivono di più e assorbono più inquinanti dalle acque.
– Evitate il pesce in scatola o in salamoia, preferendo pesce fresco o surgelato.
– Evitate pesce fritto, panato, bastoncini di pesce.
– Evitate il pangasio, uno dei pesci più inquinati dopo tonno e spada.
– Consumate pesce 2-3 volte a settimana.
– Per i vegetariani e i vegani, l’olio di semi di lino, le noci e altra frutta secca possono rappresentare ottime fonti alternative al pesce per gli omega-3.

Bibliografia
K.He – Fish, long-chain omega-3 polyunsaturated fatty acids and prevention of cardiovascular disease – Eat fish or take fish oil supplement? – Prog Cardiovasc Dis- 2009 Sep-Oct;51(2):95-114