L’alimentazione è un campo complesso, e per molti aspetti inesplorato. Le conseguenze positive o negative degli alimenti possono essere evidenti solo sul lungo termine: per questo motivo i consigli alimentari di oggi non sono uguali a quelli di trent’anni fa, e saranno ancora diversi tra altri trenta.
L’alto grado di incertezza che regna nella scienza alimentare non è dovuto esclusivamente alla mancanza di strumenti e conoscenze che sottolineino la correlazione tra determinati nutrienti e lo stato di salute della persona, ma anche ai finanziamenti di tali studi. Purtroppo, dietro la dietetica c’è un grosso business: moltissimi lavori scientifici sono finanziati da multinazionali del settore; per quanto possano essere rigorosi nello svolgimento, tendono comunque a indirizzare i risultati degli studi al profitto dell’azienda: non si dicono falsità, ma nemmeno un’incontrovertibile verità. Ancora troppo spesso si tratta di punti di vista: uno studio può portare a conclusioni diametralmente opposte a seconda della numerosità del campione, degli strumenti usati, dei limiti di accettabilità ritenuti idonei, del periodo di osservazione.

Prendiamo in considerazione il latte e i latticini. Se da una parte vi è una ricca letteratura scientifica che esalta le proprietà nutrizionali e salutistiche di questi prodotti, è sempre più consistente anche quella che ne mette in risalto tutta una serie di controindicazioni.
Per scrivere quest’articolo ho preso spunto da un libro letto settimana scorsa, e che consiglio a chi volesse approfondire l’argomento: Il male di latte, di Lorenzo Acerra. Sottolineo che è un libro divulgativo: ulteriore materiale scientifico e molto più tecnico può essere reperito in internet su portali specifici: per scrivere quest’articolo ho consultato anche lavori scientifici raccolti su PubMed.

Zuccheri e latte: il lattosio e le difficoltà digestive
Uno dei punti di forza di chi ritiene che il latte non debba essere bevuto dopo l’infanzia è il fatto che il latte sia un prodotto specifico per la prima nutrizione, e che la composizione nutrizionale di ciascun latte è propria della specie animale: quello della donna per il bimbo, quello della mucca per il vitello, quello della pecora per l’agnello. Già dopo i 2 anni la lattasi, ossia l’enzima che scinde lo zucchero presente nel latte (il lattosio), progressivamente perde la sua funzionalità. Se continuiamo a essere in grado di digerire il latte è solo perché non smettiamo di berlo, o ne consumiamo in modeste quantità: una funzionalità residua della lattasi rimane. Popolazioni come quelle asiatiche, che non bevono latte di mucca, sono completamente incapaci di digerire il latte, tuttavia sempre di più anche nel mondo occidentale si evidenziano intolleranze al latte in età adulta.
I problemi causati dalla carenza della lattasi sono di natura gastrointestinale (dissenteria, vomito, gonfiore), e non si riscontrano a seguito del consumo di tutti i derivati del latte: ad esempio nello yogurt il lattosio viene parzialmente scisso dai batteri, quindi risulta più digeribile del latte; nei formaggi stagionati il processo di scissione è completo: non contengono più lattosio, e sono perfettamente tollerati anche da chi è carente di lattasi. Ecco perché gli intolleranti possono mangiare senza problemi formaggi come il Parmigiano-Reggiano.

Proteine e latte: la caseina
Il lattosio e la lattasi non sono però gli unici due imputati per quanto riguarda l’insalubrità dei latticini; i problemi maggiori e le conseguenze più negative per la salute sono legati ad una proteina, la caseina, che si può presentare in due forme chimiche differenti. Avremo quindi due forme diverse di latte: il latte A1 e il latte A2. Le razze più antiche di mucca (così come bufalo, yak, capra e pecora) secernono latte A2, mentre quelle più moderne e largamente diffuse in Europa producono latte A1.
Le proteine del latte vaccino sono costituite da caseina per l’80%, mentre nel latte materno la percentuale cala al 35%: una bella differenza, che non dovrebbe essere sottovalutata dal momento che nei preparati di latte in polvere sostitutivi di quello materno si usano miscele di latte di mucca.

La caseina degradata
Se gli studi sui due diversi tipi di latte sono ancora agli albori, qualcosa di più si sa sugli effetti della caseina degradata da processi industriali, primo tra tutti la pastorizzazione, a cui tutto il latte viene sottoposto per abbatterne la carica batterica e aumentarne la conservabilità. Quando si sottopone la caseina (sia A1 che A2) alla temperatura di pastorizzazione (circa 70°C), questa proteina coagula e decade, diventando una sostanza colloidale insolubile. In questa forma la caseina è utilizzata come collante a livello industriale: è quella sostanza che permette alle etichette di rimanere incollate alle bottiglie di vetro, ad esempio.
E nel nostro organismo, cosa causa la caseina degradata? A seconda del grado di denaturazione subito si ha una più o meno marcata alterazione della permeabilità intestinale: più il processo termico del latte è spinto, più la caseina sarà compromessa.

Per questo motivo è categorico evitare il latte a lunga conservazione: le condizioni termiche a cui è stato sottoposto sono davvero molto più violente rispetto al latte fresco da banco frigo (che comunque è pastorizzato).

L’alterata permeabilità intestinale predispone a molte patologie atopiche, infiammatorie e autoimmuni; l’elenco di malattie di cui la caseina degradata aumenterebbe il rischio è lungo, soprattutto per quelle pediatriche: dermatite, eczema, raffreddore da fieno, asma, otite, tonsillite, orticaria. Ovviamente esistono persone molto sensibili alla caseina e persone poco sensibili, quindi i sintomi a medio-lungo termine derivanti dal consumo di latte e latticini non sono uguali per tutti; quello che è curioso notare è che molto raramente si riesce a ricondurre con test medici affidabili malattie oro-laringo-faringee o dermiche all’intollerenza al latte. Per vedere se effettivamente si soffra di una forma di intolleranza si può ricorrere alla dieta da eliminazione: per un periodo di 3 settimane si sospende il consumo di qualsiasi tipo di derivato del latte (compreso caffè macchiato, cioccolato al latte, Parmigiano-Reggiano sulla pasta…) e si monitorano i sintomi; successivamente si reintroducono a piccole dosi i prodotti caseari: se i sintomi ricompaiono, è il vostro corpo che vi segnala la sua intolleranza.

Ma allora il latte fa male?
Come ho scritto all’inizio di quest’articolo, dipende dai punti di vista: tanti sono gli studi pro-latte quanti quelli contro-latte. Il messaggio che voglio far passare con quest’articolo e con gli altri che scriverò sull’argomento non è né quello di demonizzare né quello di esaltare il latte e i latticini: voglio offrire un punto di vista che si discosta dalle comuni conoscenze alimentari, poi la scelta del consumo (o del non consumo) rimane comunque personale.
Il consiglio che posso darvi vale per il latte come per ogni altro prodotto alimentare: ascoltate il vostro corpo. Nessuno meglio del nostro stesso organismo sa cosa gli può far bene e cosa no. Se dopo aver fatto colazione con una tazza di caffelatte o dopo un assaggio di formaggi a pranzo vi viene mal di testa, o prurito, o continui starnuti, forse vi è una qualche forma di intolleranza, seppur labile.

In quest’articolo ho trattato essenzialmente dei problemi legati alle proteine del latte: ne pubblicherò almeno un altro paio, uno volto a valutare le conseguenze dagli ormoni contenuti del latte, un altro tratterà dell’aumentato rischio di osteoporosi legato al consumo di latticini. Parrebbe paradossale, ma i Paesi che sono i maggiori consumatori di latte e latticini -così vastamente pubblicizzati e consigliati per essere “fonti di calcio utile alle ossa”- hanno anche la più alta prevalenza di osteoporosi e fratture ossee.

Lo sapevi che…
La pellicina che si forma sulla superficie del latte quando lo si fa sobbollire è formata da caseina denaturata: eliminando questa sottile pellicola si elimina buona parte delle caseine; allo stesso modo la schiuma del cappuccino è costituita da caseine degradate: sarebbe meglio evitarlo.