A maggio 2023 è uscito il corso ECM di cui sono ideatrice e responsabile scientifica, “Pratiche di alimentazione gentile”. Si tratta di un corso della durata complessiva di 15 ore, aperto a professionisti della nutrizione, psicologi, psicoterapeuti, medici e tecnici di riabilitazione psichiatrica, il cui tema principale è l’affiancamento al paziente che vuole migliorare la propria alimentazione attraverso un percorso di autoconsapevolezza, rispetto del proprio corpo e riconoscimento dei vari significati che il cibo assume all’interno della propria personale esperienza di vita.
Esistono varie modalità con cui si può affiancare una persona senza dare una prescrizione della dieta, ossia senza imporre indicazioni pre-confezionate che il paziente si deve limitare a seguire pedissequamente nella speranza di ottenere il risultato desiderato.
L’alimentazione è un aspetto della propria vita privata talmente radicato nella propria personalità, che risulta impossibile la pretesa di un cambiamento alimentare efficace e duraturo quando esso sia “imposto dall’alto” (senza contare che l’alimentazione ha una declinazione anche nella vita sociale e nella vita sanitaria, aspetti sui quali difficilmente si riesce ad esercitare la propria volontà).
Affiancare il paziente in un percorso consapevole non è affatto semplice. Significa:
– Aiutarlo a mettere in discussione molti preconcetti dietetici errati
– Guidarlo a riconoscere l’infondatezza di alcune promesse irrealistiche veicolate dalla diet culture
– Guidarlo a riconoscere le diverse sfumature di fame e sazietà
– Fornire informazioni coerenti, fondate e dimostrabili riguardo le diverse correlazioni tra cibo e salute
– Proporre alcune possibili soluzioni alimentari finalizzate a migliorare la sua qualità di vita, tenendo conto di tutto il suo vissuto e senza esporlo a restrizioni dietetiche pericolose a livello fisico e cognitivo; analizzare con lui la fattibilità di queste proposte, e aprirsi spunti di riflessione riguardo il loro mantenimento nel tempo.
Nei percorsi non prescrittivi, il ruolo del professionista della nutrizione è quello di affiancamento: non è un controllore del peso, non è un giudice delle abitudini alimentari, non è un maestro che sottolinea in rosso gli sbagli commessi. Il professionista dà informazioni oggettive e risponde ai dubbi del paziente con competenza e coerenza, ma senza la pretesa di avere la verità in tasca circa quello che è giusto o sbagliato fare; il paziente e il professionista, insieme, scandagliano le informazioni messe sul piano di lavoro, e valutano insieme quali valga la pena selezionare per il singolo percorso, e in quale modalità sia più funzionale utilizzarle per modulare, piano piano, le abitudini dietetiche del paziente.
Facciamo un esempio pratico.
Se una paziente si presenta da me spiegandomi di avere molte difficoltà a preparare pasti “bilanciati” per la cena della famiglia, io ho davanti a me diverse possibilità:
– Posso fornirle soluzioni pre-impostate, con ricette e idee di cene rapidissime da realizzarsi e adatte ai fabbisogni nutrizionali di tutta la famiglia
– Posso orientarla verso soluzioni rapide ma sane acquistate al supermercato, in gastronomia o nei take-away
– Posso indicarle come dedicare una parte del weekend per portare avanti preparazioni e cotture da sfruttare durante la settimana
– Oppure, posso prima di tutto farle due domande: “Cosa intendi tu per ‘pasto bilanciato’? Perché è così importante che tu realizzi ‘pasti bilanciati’ per tutta la famiglia?” e “In cosa consistono le tue difficoltà?”.
L’ultimo approccio non esclude i precedenti, ma nemmeno li attua a priori; quel che è più importante, il mio ruolo non sarebbe quello di risolvere i suoi problemi e aggirare le sue difficoltà, ma quello di fornirle gli strumenti per fare scelte autodeterminate, anche qualora esse comprendessero cene a base di pane e marmellata. La paziente sarebbe consapevole dei limiti di una cena simile? Con il mio aiuto, sì: avrebbe le informazioni necessarie. Avrebbe alternative sane e rapide da preparare per cena? Sì, potrei aiutarla ad avere opzioni da cucinare, da acquistare o da farsi portare a casa con un take-away. Nonostante ciò, la paziente potrebbe liberamente e senza senso di colpa decidere che quella sera va così: pane e marmellata. Perché i figli sono stati nervosi tutto il pomeriggio, e le energie investite su di loro hanno sottratto qualsiasi possibilità di aver voglia di cucinare qualcosa che verrebbe puntualmente rifiutato, aumentando rabbia e frustrazione e degenerando magari in una scenata.
O chissà per quale altro motivo: magari solo perché va così, pane e marmellata, punto.
Il mio ruolo a livello sanitario sarebbe stato svolto nella misura in cui le informazioni di salute sono state fornite, e le alternative fattibili sono state proposte: la scelta finale, però, è autodeterminata. E a quel punto io dovrei adempiere ad un altro mio compito: quello di sgravare del senso di colpa che ammanta tante scelte alimentari che in realtà diventano gabbie; quello di allontanare voci giudicanti interne ed esterne che fanno sentire la paziente ’sbagliata’, ‘cattiva’, ’sporca’ per aver scelto pane e marmellata per cena; quello di ampliare una visione di salute personale che troppo spesso sembra essere legata unicamente a come e come si mangia (e a quanto e come si fa sport; ricordate questo post? La salute non è solo 50% dieta e 50% sport!).
Da quando ho messo online il corso ECM “Pratiche di alimentazione gentile” diversi pazienti mi hanno contattata per chiedermi se un percorso non prescrittivo sia fattibile anche in caso di necessità di dietoterapia.
Ossia: se una persona deve seguire un certo tipo di alimentazione per poter risolvere alcuni problemi di salute senza dover ricorrere alla cura farmacologica, è possibile avere un supporto non prescrittivo?
Nella maggior parte dei casi, direi: la maggior parte delle condizioni fisiche e metaboliche sulle quali l’alimentazione può effettivamente fare la differenza sono contestualizzabili in un contesto di alimentazione flessibile, intuitive eating e scelte autodeterminate. Solo una minoranza di casi richiede regole imposte dall’alto che non possono essere modulabili né messe in discussione: ad esempio, in caso di celiachia (l’ingestione di una minima porzione di glutine causa un peggioramento della patologia e una sequela di conseguenze: non ci sono se né ma…).
La differenza rispetto a un percorso non prescrittivo, è che la dietoterapia (quasi inevitabilmente) passa attraverso l’ideazione di un piano alimentare personalizzato che preveda indicazioni scritte, indicazioni di frequenza e range di porzioni di consumo suggerite. Vale a dire, a una persona che soffre di insulino-resistenza non posso limitarmi a dire di “consumare i dolci con moderazione”, né fermarmi a riflettere sul perché si desiderino i dolci in modo ossessivo: dovrò necessariamente dare delle indicazioni scritte su se, come, quanto e quale dolce poter consumare. A fianco di queste indicazioni, che devono rimanere flessibili e personalizzabili, si può comunque lavorare su tutti gli altri aspetti di autoconsapevolezza che caratterizzano l’alimentazione gentile.
Affrontare un cambiamento dietetico quando si soffre di una problematica che beneficia di alcuni accorgimenti alimentari può essere davvero arduo, senza il giusto affiancamento: è indispensabile avere a fianco un professionista non giudicante, empatico e oggettivo, che non attui “protocolli” alimentari, che non dia soluzioni preimpostate e che spieghi con onestà come e quanto la dieta possa essere di aiuto a migliorare il quadro generale.
Per essere quel genere di professionista serve sviluppare competenze su almeno quattro dimensioni diverse:
– La teoria: bisogna conoscere la patologia, la sindrome o il disturbo descritto dal paziente; bisogna sapere quali sono gli accorgimenti dietetici utili, bisogna essere aggiornati sugli ultimi studi pubblicati in merito, bisogna riconoscere dove invece la dieta sia solo una falsa soluzione (ad esempio. quanti casi di colon irritabile dipendono da ansia sociale o stress lavorativo/familiare, e nient’affatto da come si mangia?).
– L’ascolto: in sede di colloquio, non è sufficiente raccogliere solo i dati relativi al disturbo del paziente. È certamente importante capire quali siano i sintomi lamentati, la loro frequenza, la loro ricaduta nel benessere quotidiano: ma non basta! Bisogna anche capire come il paziente si ponga nei confronti delle potenzialità dell’alimentazione: che idea ha rispetto alla ‘dieta giusta’ da seguire? Ha già seguito dietoterapia in passato, e con quali difficoltà ed esiti? Quali pensa che siano i problemi con la sua attuale alimentazione, quali i fattori percepiti come limitanti? E, rispetto alla ‘dieta ideale’, quali difficoltà intravede all’orizzonte (costo e organizzazione dei pasti? Gestione di eventi sociali? “Forza di volontà” nel seguire la dieta?)?
– Pensiero divergente: il pensiero divergente permette di trovare risposte originali, inusuali ed efficaci di fronte ai problemi. Non è una caratteristica che *deve* essere acquisita dal professionista, ma è auspicabile che ci sia un minimo di capacità di trovare soluzioni alternative rispetto alle classiche risposte “da manuale” (spesso impersonali) ai problemi del paziente.
– L’immedesimazione: immedesimarsi nel vissuto del paziente permette una sorta di “collaudo” delle opzioni pensate per lui, prima ancora di proporle a lui. L’immedesimazione dovrebbe essere fatta chiedendosi se le proposte alimentari siano sostenibili non solo a livello terapeutico (per questo, ci si affida alle competenze teoriche che un professionista dovrebbe avere), ma soprattutto a livello di realizzazione pratica, sostenibilità economica, inserimento nel contesto familiare, gradevolezza in relazione ai gusti individuali.
Se ci sono colleghi in lettura interessati ad approfondire la tematica, questo è il programma completo del corso ECM (online fino maggio 2024) e questo il link per l’iscrizione (bisogna iscriversi al sito di ECM UniPV, per poi selezionare il corso di interesse).