16 ottobre 2020: Giornata Mondiale dell’Alimentazione

Ho pensato a lungo cosa scrivere nella giornata che celebra ciò a cui la mia professione è vocata.
Sorprendentemente, ho fatto un’immensa fatica a mettere in fila i pensieri. Nel corso degli anni, in questo sito ho raccolto articoli che hanno trattato i più disparati argomenti: dall’educazione alimentare ‘di base’ alla sensibilizzazione verso la qualità delle materie prime; dalle diete per specifiche problematiche endocrine e immunitarie agli schemi flessibili; dai problemi di fertilità nella donna allo svezzamento dei neonati.
Ogni articolo è stato frutto di un personale lavoro di approfondimento: nulla è stato scritto nell’arco di un pomeriggio, e, anche laddove non ho segnalato le referenze scientifiche, ho sempre consultato pubblicazioni del settore prima di mettermi seriamente alla tastiera.
Ho creduto – e certamente credo tutt’ora – al potere curativo dell’alimentazione: come prevenzione di malattie, come base antinfiammatoria per il nostro organismo, e come supporto al miglioramento della nostra salute. Conosco molti protocolli utili al miglioramento di quadri patologici e dismetabolismi. Vi so dire perché i grassi animali siano preziosissimi nei problemi di fertilità, e al contempo vi so elencare i benefici di un’alimentazione su base vegetale. Se mi raccontate qual è il vostro problema (ammesso e non concesso che possa essere fatto regredire da adeguata nutrizione) e come è la vostra alimentazione, è molto probabile che vi sappia dare qualche suggerimento per ottimizzare i vostri pasti.

Eppure, più vado avanti nella mia professione, più studio, più insegno e più faccio ambulatorio incontrandovi a tu per tu, più mi sento incompleta come dietista: per quanto possa elaborare diete adatte a migliorare i sintomi e a supportare il benessere, quello che spesso manca è la possibilità di creare percorsi a lungo termine.

Perché alla fin fine è questo che conta: la sostenibilità sul lungo termine di un piano alimentare.

Non vi sto parlando di motivazione a cambiare le proprie abitudini: quella c’è, eccome se c’è! Chi pecca di motivazione, nel momento in cui prenota una visita da un professionista, e investe tempo e soldi nell’incipit del percorso?
Non è nemmeno l’entusiasmo a essere mancante, o lo spirito di adattamento a indicazioni che si discostano dalle proprie abitudini: spiego sempre le motivazioni che giustificano certe mie scelte nell’elaborazione della dieta, non impongo mai cambiamenti senza dare una giustificazione. Men che meno impongo cambiamenti non necessari: quante volte mi è capitato di avere pazienti convinte di ‘dover’ eliminare il glutine o ‘dover’ inserire la colazione, e trovarmi a smentirle!
Questo è il risvolto negativo del mio sito: nei vari articoli che ho scritto, ho affrontato diverse volte temi relativi a restrizioni alimentari ‘terapeutiche’ (ad esempio il glutine per endometriosi, i latticini per PCOS, l’istamina per l’acne), e spesso chi prenota una visita con me lo fa dopo aver letto proprio quegli articoli; tuttavia, l’alimentazione va poi *specificamente* adattata alla persona, a seguito di un’attenta anamnesi: a parità di problematica riscontrata, l’alimentazione consigliabile per una persona può differire in modo significativo da quella di un’altra persona. Dico questo proprio per sottolineare quanto divario ci sia tra la parte teorica sottostante ai diversi protocolli dietetici, e il risvolto pratico: se la singola situazione non lo richiede, mai mi sognerei di fare restrizioni o drastiche modifiche alimentari fini a sé stesse, che complicano solo la vita della persona e che non portano ad alcun risultato tangibile.

Ad ogni modo, per ogni paziente che viene da me, viene consegnato un piano alimentare che si discosta in maniera più o meno significativa dalle precedenti abitudini: nelle porzioni di consumo, o negli abbinamenti ai pasti, o nel suggerimento di specifici ingredienti.
Alla fine, è questo il mio lavoro, no?
I risultati di tale cambiamento vengono rilevati durante gli appuntamenti di controllo: a distanza di un tempo congruo affinché l’alimentazione dia effettivamente beneficio, incontro nuovamente i pazienti per discutere di questi benefici e degli aspetti ostici della dieta, così da capire insieme quali variazioni del piano possano conciliare le richieste del paziente alle finalità terapeutiche del piano.
Ed è qui, di fatto, che comincio a sentirmi incompleta come professionista.

Perché?
Per due motivi.
1. La dieta non è come una medicina acquistata in farmacia: indubbiamente alcuni risultati positivi si fanno sentire già dopo pochi giorni dal cambiamento di abitudini, ma ci vogliono mesi (se non anni) affinché tali cambiamenti possano dirsi solidi e duraturi. Seguire una dieta per un paio di mesi serve come iniziale orientamento, ma i risultati vanno consolidati nell’arco di molto più tempo: soprattutto quando la finalità che si vuole ottenere è delicata, come il miglioramento di un dolore cronico (endometriosi, vulvodinia, fibromialgia…), o il supporto ormonale specifico (ipotiroidismo, infertilit, esaurimento da stress…).
Il mio cruccio è: quando collocare gli appuntamenti di controllo? Andrebbero posti ogni 3-5 mesi: in questo modo, tuttavia, sono talmente dilatati nel tempo che rischio di ‘perdere’ il paziente, perché non si consolida un rapporto di fiducia appena iniziato con il primo appuntamento. Eppure, ravvicinare gli appuntamenti presenta un altro genere di problemi: prima di tutto, la persona magari si aspetta dei cambiamenti alla dieta ad ogni controllo, cambiamenti che non sono necessari, o sono talmente minimi da essere irrisori.
“E allora il controllo a che serve?”.
Ecco, servirebbe a creare una continuità nel percorso. A conoscerci di più. A prendere altre informazioni utili non tanto per ‘mettere mano’ alla dieta, quanto per dare consigli per renderla sostenibile sul lungo termine: affrontare le difficoltà a fare la spesa, trovare il modo di cucinare in modo furbo&sano anche quando il tempo da dedicare ai fornelli è quasi pari a zero, conciliare le esigenze di altre persone del nucleo familiare… E magari (magari!) parlare anche del percorso in sé: quante volte ad esempio vorrei chiedere se… Siamo davvero sicure che il dimagrimento sia un obiettivo, e non invece una conseguenza del percorso di cambiamento? (domanda-bomba. rileggetela. tante volte.)

2. La dieta non è mai una dieta. La dieta è un percorso. E il percorso ha tante deviazioni, tante strade cieche, tanti ripensamenti. Durante il percorso di cambiamento alimentare si intersecano decine di altri fattori che, in modo conscio o meno, incidono sul percorso stesso: come dietista, mi sento di essere partecipe solo di una minima percentuale del cambiamento, la percentuale forse più nefasta di tutte, perché l’alimentazione è quel lato della propria vita su cui si pensa di avere il maggiore controllo, e che risente invece di rimescolamenti e moventi più profondi, fragili, insondabili. Ci ostiniamo a dire che “con un po’ di organizzazione tutto si può fare”, ma non è così: non siamo tanto più encomiabili quanto più manteniamo l’ordine nella nostra alimentazione, nonostante fattori perturbanti esterni (cambio di lavoro, nascita di un figlio, rottura con il fidanzato storico, impegni che complicano la nostra quotidianità…).

La prospettiva è diametralmente diversa: la nostra alimentazione non può rimanere immutata quando tutto il resto sta cambiando; l’alimentazione dovrebbe seguire, in modo fluido e spontaneo, il cambiamento stesso.

Come dietista, a volte mi sento annaspare perché vorrei tanto trovare il modo di trasmettere concetti che faccio fatica a formulare in modo coerente: vorrei far capire alle mie pazienti (e parlo al femminile perché seguo perlopiù donne) che è totalmente inutile pesare, incasellare, programmare, prevedere e organizzare ogni cosa alla perfezione.
Vorrei che gli appuntamenti di controllo nel percorso di ogni singola persona fossero volti a raffinare la prima proposta alimentare che è stata consegnata: ‘raffinare’ nel senso di ‘perfezionare’, ma non sul livello matematico. Sul livello empirico: non si tratta di aggiustare 20 grammi di carboidrati a pranzo o il 5% di proteine in più a cena, ma di arrivare al fulcro, al senso stesso, dell’alimentazione.
Cosa mi fa stare bene? Non una certa ripartizione di nutrienti, non un certo calcolo di calorie, non un certo timing dei pasti in funzione degli allenamenti.
Forse mi fa star bene -veramente bene- una certa consistenza dei miei piatti. Un certo sapore. Una certa cura nel tagliare le verdure. Un certo profumo che aleggia in cucina.
Forse mi fa stare bene guardarmi indietro, a un anno fa, e vedere che sono la stessa persona, con un taglio di capelli diverso e un peso che più o meno è sempre quello: però ho eliminato l’app per contrare le calorie dal mio cellulare, vado tutte le settimane al mercatino dei produttori a fare la spesa e ho *percepito* (non capito, proprio percepito) perché mangiare con materie prime meno trattate possibili mi fa stare meglio. Non è una questione di vitamine, non è una questione di pesticidi: è una questione di cura. E’ non dare un alimento per scontato. E’ assaporarlo in modo diverso, perché è stato acquistato con uno spirito diverso.

Mi sto interrogando (e crucciando) da molto tempo su come poter cambiare il mio ‘essere dietista’, dando una svolta che sia gratificante per me, e maggiormente efficace per chi viene da me. Forse sto individuando delle possibilità concrete: sicuramente tutto quello che ho scritto sul sito da dieci anni a questa parte mi viene in aiuto, ma serve ancora quel quid in più. Mi serve ancora un po’ di tempo, e di ragionamento.
Ma sono quasi certa che una parte del modo in cui esercito il mio lavoro verrà cambiata.