Quante volte vi è capitato di essere frenati nell’acquisto di un determinato alimento a causa del suo prezzo?
Non sto parlando di prodotti gourmet o ricercati: mi riferisco, al contrario, alla ‘spesa essenziale’ di tutti i giorni. Materie prime che acquistiamo, cuciniamo e consumiamo regolarmente.
Quante volte, davanti allo scaffale del supermercato, abbiamo confrontato i prezzi dei diversi tipi di riso (o passata di pomodoro, legumi, crackers…), e abbiamo concluso la scelta solo in base al prezzo?
Escludiamo quelli più costosi (come possono costare il triplo di quelli di fascia bassa?! È sicuramente una mezza truffa!), ma anche quelli meno costosi (come possono costare un terzo di quelli di fascia alta?! Sicuramente c’è qualcosa sotto!). La maggior parte delle volte mettiamo nel carrello i prodotti di fascia media: è rassicurante. Non ci sentiamo truffati, non ci sembra di dilapidare i risparmi e non ci pare nemmeno di acquistare qualcosa di scarsa qualità.
Tuttavia, per alcuni prodotti siamo disposti a spendere molto: in genere, si tratta di materie prime che usiamo con estrema parsimonia (come ad esempio quel vasetto di aceto balsamico invecchiato 25 anni, che usiamo talmente con il contagocce che… a ben guardare, nella nostra dispensa è invecchiato altri 5 anni), oppure di articoli la cui qualità è inscindibilmente associata al prezzo (pensiamo all’olio extravergine: sappiamo che il prezzo di quello italiano è ben diverso da quello comunitario).
Per altri prodotti cerchiamo il massimo risparmio. Le cipolle son sempre cipolle: meglio acquistare quelle a 50 centesimi, che differenza ci sarà con quelle che costano il doppio?
A ben guardare, ciascuno di noi effettua i propri acquisti alimentari sulla base di un personalissimo algoritmo nel quale il prezzo è solo uno dei fattori in gioco. Altre variabili che determinano l’acquisto sono:
– Facilità di reperimento (o ‘fatica’ in termini di spostamento e di perdita di tempo per poterlo acquistare)
– Frequenza di consumo
– Gusto
– Valori nutrizionali e ingredienti
– Pubblicità e strategie di marketing associate
– Ecosostenibilità
Sicuramente potrei citare altre voci, ma credo che queste siano quelle essenziali.
Ognuno di questi fattori dipende dagli altri in modo fluido; voglio dire che, in base a quello che stiamo per acquistare, un fattore può diventare più importante degli altri: compriamo solo miele biologico a km 0, ma nella nostra dispensa ci sono anche decine di capsule Nespresso, che inquinano tanto ma sono anche tanto comode e deliziose…
(Insomma, siamo consumatori poco coerenti, volubili e altamente condizionabili!)
Oggi vorrei parlare un po’ più approfonditamente sulla questione del ‘prezzo’ del cibo: è stato un argomento oggetto di lunghe riflessioni e ricerche personali, che vorrei in parte condividere con voi.
Perché?
Per due motivi: uno altruistico, e uno egoistico. Ritengo che dare il ‘giusto’ prezzo al cibo ci renda consumatori più consapevoli (motivo altruistico), ma credo anche che il riscontro pratico più immediato sia a totale vantaggio della nostra salute e del nostro rapporto con il cibo (motivo egoistico).
Rispetto ai nostri nonni e bisnonni, viviamo in una società nella quale il prezzo del cibo ha subìto un’enorme svalutazione: grazie (grazie?!) alle tecniche di coltivazione e allevamento intensivo, al basso costo della manodopera e alla globalizzazione dei mercati, le materie prime (soprattutto quelle ‘essenziali’) costano davvero poco.
Cretemi, non sono una sostenitrice “dei bei tempi che furono”: sono grata alle tecniche di modernizzazione che ci permettono di non patire la fame e non preoccuparci troppo dei danni che un temporale può causare al nostro orticello. Tuttavia, è innegabile che proprio le stesse tecniche hanno portato la maggior parte di noi a dare il cibo come per ‘scontato’ (e pertanto a sprecarlo con molta leggerezza), e a creare una profonda ignoranza riguardo il ‘giusto prezzo’ delle materie prime. Sostanzialmente: se possiamo avere prodotti che costano poco, perché dovremmo voler spendere di più? E se costano poco, non è certamente una tragedia doverne buttare una parte perché abbiamo fatto passare la data di scadenza.
Vorrei poter sensibilizzare al ‘giusto prezzo’ parlandovi solo ed esclusivamente delle differenze qualitative tra i prodotti di fascia bassa e quelli di fascia alta… Ma non sarebbe esaustivo, e oltretutto non sarebbe nemmeno applicabile a ogni categoria di prodotto.
Vi faccio due esempi:
1. Le cipolle citate prima! Esistono alimenti per i quali non c’è concreta differenza qualitativa tra la fascia ‘alta’ e la fascia ‘bassa’: quelli di fascia alta non hanno più vitamine o minerali degli altri; molto probabilmente non contengono meno pesticidi (o meglio: magari la buccia esterna sì, ma tanto è la parte che si scarta), e altrettanto probabilmente anche il lato gustativo è pressoché sovrapponibile.
2. Il biologico! Sebbene sia un movimento (vogliamo chiamarlo così?) che negli anni Settanta era partito con tutte le migliori intenzioni, attualmente l’80% dei prodotti con certificazione ‘bio’ sono riservati a un’elite di popolazione disposta a spendere di più per cibo il cui valore non differisce da quello tradizionale (un po’ come quando acquistiamo una maglia bianca da 200 euro perché è griffata…). Smontiamo (brevemente: ce ne sarebbe da dire…) il mito del biologico:
– Il cibo bio non contiene più nutrienti di quello tradizionale: esistono studi che dimostrano sottili differenze nel contenuto di vitamina C (e poco altro), ma si tratta di dati irrilevanti quando contestualizzati nella dieta complessiva di una persona.
– Non è nemmeno corretto affermare che il cibo bio sia esente dalle temutissime sostanze chimiche (pesticidi e fertilizzanti): l’agricoltura e l’allevamento bio, per disciplinare e per legge, consentono l’uso di alcune sostanze chimiche che, dati scientifici alla mano, hanno potenzialità nocive pari a quelle usate in agricoltura/allevamento tradizionali. È comunque vero che i residui potenzialmente tossici del bio siano inferiori rispetto al non-bio.
– Le certificazioni bio non sono tutte uguali: alcuni enti certificatori sono più -per così dire- possibilisti rispetto ad altri. Inoltre, per l’azienda produttrice avere una certificazione bio rappresenta un costo: non tutti se la possono permettere, soprattutto quando ci riferiamo a piccole realtà (che, magari, nel metodo produttivo sono “più bio del bio”).
– I prodotti bio confezionati non sono “più sani” di quelli tradizionali: dobbiamo comunque leggere le etichette, perché la quantità di zuccheri e grassi industrializzati (pur se di provenienza bio) può essere pari o superiore. I prodotti bio non sono nemmeno di default esenti da additivi.
– L’agricoltura bio può essere intensiva tanto quanto quella tradizionale: troviamo tranquillamente pomodori bio a dicembre-gennaio…
– L’allevamento bio non è sinonimo di allevamento estensivo: i criteri di allevamento bio hanno soprattutto a che fare con la selezione dei mangimi degli animali. Pertanto, il bestiame per la produzione di carne bio può non aver mai visto un pascolo e può essere cresciuto interamente in stalla (magari con uno spazio vitale leggermente più ampio rispetto al non-bio).
Di fatto, per queste e per altre motivazioni, spendere mezzo stipendio nei supermercati bio non ci garantisce maggiore salute o migliore qualità dei prodotti.
E quindi, che senso ha spendere di più per ciò che possiamo acquistare anche a (molto) meno?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo cambiare prospettiva: qui viene il difficile.
Per prima cosa, inizio a dire che i due punti sopra descritti non sono applicabili a tutti i prodotti. Esistono tipologie di cibo per le quali la qualità “fa” il prezzo: ossia, il prezzo più elevato è giustificato dalla maggior qualità. Pensiamo ad esempio a olio extravergine, vino, cioccolato.
Ma pensiamo anche alla qualità organolettica, gustativa e alla resa in cottura: da buoni italiani, molto probabilmente siamo disposti a spendere di più per una pasta di grano duro che non si incolli in pentola. Siamo disposti a pagare il doppio un cestino di fragole il cui gusto non sia annacquato.
Il gusto: focalizzatevi anche solo sul gusto. Comprate due materie prime identiche, una di fascia alta e una di fascia bassa, e cucinatele allo stesso modo: poi, passate alla prova assaggio, e traete le vostre conclusioni. Può essere una pasta al pomodoro, una frittata, delle carote spadellate o un arrosto di vitello.
Provateci: davvero.
E poi, ritorniamo sull’argomento ‘bio vs non-bio’ e ampliamolo.
Ribadisco che l’80% dei prodotti biologici sono in realtà un “biologico industrializzato” che poco differisce dal tradizionale. Ma focalizziamoci sul rimanente 20% e, soprattutto, estendiamo il concetto a tutte quelle aziende e quei prodotturi che, pur senza marchio bio, vantano metodi produttivi veramente consapevoli: non perché i prodotti finali siano più nutrienti e nemmeno perché siano esenti dall’uso di tecnologie innovative.
Ma perché hanno rispetto del proprio lavoro, di quello dei collaboratori, e del loro prodotto.
È “tutto” qui, sapete?
Produrre formaggi da mucche che hanno pascolato tutta estate e che in inverno siano nutrite con foraggio essiccato ha un costo di produzione completamente diverso rispetto ai formaggi da allevamenti intensivi. Nel primo caso, quasi sempre avremo anche la garanzia implicita che gli animali non sono stati ‘esauriti’ da continui cicli di gravidanze per poterli sfruttare al massimo in termini di mungitura.
Gestire una torrefazione che produce caffè proveniente da piantagioni esenti dallo sfruttamento della manodopera locale, e nel rispetto dell’ecosistema tropicale, ha un costo diverso rispetto alla maggior parte del caffè “delle grandi marche”. E, sapete, anche il modo in cui viene curata la materia prima sarà quasi sicuramente diverso: una tostatura meno spinta e acida, ad esempio.
Possedere un appezzamento di terreno da rispettare in termini di resa produttiva determina costi di produzione molto più elevati rispetto all’agricoltura intensiva: significa concimare e ruotare le colture in un certo modo, e significa lasciare anche ogni anno una parte del terreno stesso ‘improduttiva’, per far sì che il suolo si rigeneri e si concentri nuovamente di azoto per la coltura dell’anno successivo.
Avvicinarci a queste conoscenze non è semplice: non da un punto di vista concettuale (non ci sono grossi concetti da sviscerare…!), ma da un punto di vista comportamentale. Dare ‘il giusto prezzo’ al cibo significa riconoscere che, quando faccio acquisti, non sto massimizzando il mio utile: non sto cercando di spendere il meno possibile puntando al massimo della quantità e della qualità. Ma significa capire che sto pagando e facendo onore al lavoro di chi ha prodotto il cibo che mi metterò in tavola.
Comprare cibo *consapevole* (volete chiamarlo naturale? Sostenibile? Più bio del bio?) non comporta un risparmio: i prezzi sono sovrapponibili (se non a volte superiori) rispetto a prodotti analoghi “da supermercato” (beninteso che anche sul supermercato si trovano alcuni cibi consapevoli, ma permettetemi la generalizzazione).
Però: quando compro alimenti da grandi industrie, il prezzo finale è rappresentato per almeno il 40-50% da marketing e packaging. In sostanza, pago la scatola, i colori usati per la stampa, il cellophane che avvolge le monoporzioni, la pubblicità in tv e sui social, e via dicendo. Il costo di produzione è molto basso, e non per motivi virtuosi, quanto per logiche relative all’industrializzazione e all’intensificazione produttiva.
Quando compro cibo *consapevole* acquisto qualcosa il cui prezzo risente per nulla della pubblicità, ben poco del packaging e quasi interamente del costo di produzione, vale a dire il lavoro di chi ci sta dietro.
Imparare ‘il giusto prezzo’ del cibo significa in primis essere disposti ad uscire da meccanismi meramente egoistici: no, non dico che sia una scelta altruistica (sarebbe una definizione eccessiva), ma “un po’ meno egoistica”.
Ecco, in realtà, come vi accennavo, c’è anche un effetto secondario del tutto egoistico, ma ve ne parlo nel prossimo articolo!
2 Comments
Bellissimo articolo, molto interessante..hai spiegato in modo chiaro e completo il concetto è trovo che sia un messaggio davvero importante..hai aperto uno spunto di riflessione facendo emergere un punto di vista che il 99% delle persone trascurano quando fanno acquisti!
Sempre molto interessante. Grazie di cuore.