Avevo già trattato su questo blog la difficile tematica del “se vuoi puoi” relativo ai percorsi di cambiamento alimentare; se avete voglia di spendere 5 minuti su quelle vecchie – ma pur sempre valide – riflessioni, trovate l’articolo qui.
Oggi affronterei un argomento un pochino diverso, ma sempre inerente alla sfera della *volontà* nel cambiamento, e in particolare, vista la mia professione, in campo alimentare. Diverse persone intraprendono un percorso alimentare per motivi molto diversi rispetto al semplice dimagrimento: chi per correggere alcuni valori negli esami del sangue, chi per abbassare la pressione, chi per aiutare un intestino capriccioso.
Tutte le motivazioni che spingono a cambiare le proprie abitudini a tavola e al supermercato sono intrinsecamente legate a una sorta di resistenza mentale al cambiamento: cambiare stile alimentare è certamente utile per la salute, ma è tutt’altro che semplice e automatico come prendere una pastiglia!
Cambiare queste abitudini significa rivoluzionare il proprio rapporto con il cibo, mettersi in relazione ai propri segnali di ‘fame’ e di ‘pienezza’. A volte significa trovare un compromesso “la pancia” e “la mente”.
Tutti i percorsi presentano difficoltà e insidie.
Ma nessun percorso alimentare è tanto difficile quanto quello che si prefigge di migliorare la propria salute attraverso un miglioramento del rapporto con il cibo.
Un rapporto burrascoso con il cibo può essere rappresentato su due versanti opposti che si fronteggiano: da una parte la perdita di controllo, le abbuffate, l’alimentazione scriteriata (che non risponde nemmeno alla più innocua ‘golosità’: mi sto altresì riferendo a una fame rabbiosa, una fame cattiva, a tratti punitiva). Dall’altra parte, il controllo eccessivo, compulsivo, malato: la paura di tutto ciò che non è programmato e schematico, di tutto ciò che non rientra nei propri rigidi parametri.
Talvolta capita di oscillare da un versante all’altro.
Talvolta il disturbo è radicato su solo uno dei due fronti.
In questi casi il cibo assume connotazioni non comuni: è specchio del rapporto con sé stessi (e con i propri affetti più stretti, che spesso affondano le radici nell’infanzia). È strumento con cui si seda l’ansia, la rabbia, l’emozione che non ci si permette di gestire. Il cibo diventa un orizzonte nel quale si sviluppano relazioni dalle connotazioni patologiche.
Da dietista, nel corso degli anni ho accompagnato pochissime pazienti con DCA conclamati, e solo se opportunamente supportate da altre figure professionali (psicoterapeuta in primis). Tuttavia, ho aiutato (o cercato di aiutare) moltissime altre ragazze e donne che vivono sul filo del rasoio con un DCA non diagnosticato, non invalidante, ma non per questo da ignorare.
Come tantissimi altri colleghi, negli ultimi due anni ho visto un cambiamento in termini di diffusione dei problemi alimentari: la pandemia, il lockdown e la chiusura delle scuole hanno fatto da catalizzatori all’insorgenza di DCA più o meno gravi. Il maggior numero di ore trascorso sui social (social che spesso e volentieri veicolano ideali patologici di bellezza, oltre che incentivare convinzioni alimentari assurde) ha fatto da detonatore.
Ma non è solo una questione di numeri.
È cambiato anche l’atteggiamento verso il problema. Chi soffre di un rapporto conflittuale con il cibo riconosce (spesso, non sempre) di avere un problema, e chiede aiuto: ma, a differenza di non molti anni fa, c’è molta più difficoltà a mettere in atto quei piccoli cambiamenti che permetterebbero al terapeuta di dialogare sul cambiamento. È come se si rimanesse cristallizzati nella cosiddetta “fase contemplativa”: so che c’è un problema, so quali potrebbero essere le strategie per risolverlo, ma non ne metto in atto nemmeno una. [Sia ben chiaro: le strategie proposte potrebbero non essere quelle risolutive, ma sarebbero comunque un piccolo passo avanti: vediamo come va, poi discutiamone. Se non è questa la strada giusta, proviamo qualcos’altro!]
Non molti giorni fa mi sono ritrovata a discutere di questa situazione con Liana Cassone, che ormai conoscete: psicologa e psicoterapeuta, è a lei che spesso affido le mie pazienti che richiedono un sostegno sotto il lato “psy”.
Liana, come altre colleghe dietiste con cui ho avuto modo di confrontarmi, mi ha confermato che la mia non è solo un’impressione:
Capita sempre più spesso che il terreno di ‘relazione terapeutica’ sembri inaridirsi, e che, colloquio dopo colloquio, si sviscerino sempre le stesse tematiche, gli stessi pensieri disfunzionali, le medesime difficoltà. Il terapeuta (psicologa lei, dietista io) propone strategie di cambiamento, che tuttavia non vengono messe in atto.
Il mio cruccio è: in tutto questo, quanto conta la volontà personale?
È ovvio che l’atto di chiedere aiuto a un professionista dimostra che c’è la volontà di cambiare, volontà che per altro viene confermata perché gli appuntamenti proseguono, sebbene in modo ripetitivo e non progressivo.
È altrettanto ovvio che la volontà non può essere sufficiente. Facciamo un esempio banalissimo: se una donna presenta episodi di abbuffate ricorrenti la sera, non è sufficiente “volerle interrompere”. Insieme al terapeuta si analizza insieme quali sono i fattori che portano all’abbuffata: lo stress accumulato sul lavoro, l’idea di perfezionismo, le notti insonni per i bambini piccoli, l’insoddisfazione della vita coniugale, una dieta troppo restrittiva durante l’arco della giornata… Ecco: per *voler* interrompere le abbuffate bisogna prima trovare strategie su queste cause scatenanti. La volontà si esplica nel provare a mettere in pratica strategie in grado di modificare le cause; faccio degli esempi ipotetici in relazione alle possibili cause elencate: lo stress potrebbe essere meglio gestito con tecniche di mindfulness o di respirazione yogica o coltivando un hobby? L’ideale di perfezionismo può essere ribaltato analizzando tutti i tipi di normalità presenti al mondo? Le notti insonni possono essere meglio gestite con l’aiuto del papà dei bimbi e/o con power nap durante il giorno e/o con un’ostetrica che aiuti a gestire la fisiologia del sonno neonatale? L’insoddisfazione coniugale può pian piano essere portata in superficie e affrontata, nel bene e nel male? La dieta troppo restrittiva durante il giorno può essere smussata con l’aiuto della dietista? …e così via.
Io credo che la volontà si eserciti in questo: nel lavoro sulle cause del problema, nel *volerle* individuare e nel *voler provare* a modificarle.
E cosa succede quando non si vuol nemmeno tentare il minimo passettino, accettare il minimo consiglio da parte del terapeuta? Magari potrebbe essere che è il terapeuta ad essere sbagliato (quante volte mi sono sentita sbagliata come dietista!), e allora si cambia quello, si prova con un’altra persona e un altro metodo. Oltretutto, va comunque considerato che cambiare fa paura, comporta dolore e sofferenza: se questi fattori hanno la prevalenza, è da essi che si deve partire; si sviscera il concetto di dolore, si soppesano costi e benefici, si affrontano le paure di quello che il cambiamento comporta.
Ma a volte, nonostante tutto, la situazione comunque cristallizza, non progredisce, il terreno inaridisce ulteriormente.
E allora, forse, la volontà si esplica nella volontà del non cambiare.
Lascio la parola a Liana.
***
“Insanity is doing the same thing over
and over again and expecting different results”
A.Einstein
Qualche giorno fa io e Arianna, come ci capita spesso di fare, con mio grande piacere peraltro, ci siamo confrontate sulle nostre reciproche percezioni rispetto ad alcune modalità che manifestano talvolta i pazienti e le pazienti. Modalità che sostanzialmente inchiodano alle stesse difficoltà per cui si rivolgono a noi con il desiderio di scioglierle.
E’ vero, io ed Arianna ricopriamo ruoli diversi, ma entrambi i nostri ruoli hanno un fondamentale fulcro comune: la relazione. Che è sostanzialmente luogo della cura, che si tratti di cura emotiva o di cura nutrizionale.
Negli ultimi mesi ci è capitato spesso di confrontarci su situazioni di stallo, situazioni in cui sostanzialmente le pazienti (alcune volte pazienti in comune), nonostante dichiarino il forte desiderio di superare un problema, non riescono o non decidono (in parte magari con poca consapevolezza) di attivare qualche cambiamento, seppur minimo, di pensiero e/o comportamento. Parliamo di persone che hanno tutti gli strumenti per farcela, che hanno risorse e molto spesso anche il supporto di chi hanno intorno. Eppure, colloquio dopo colloquio, riportano lo stesso nodo e nessun tentativo di piccolissimo cambiamento (tentativo che, pur se minimo, ci darebbe poi l’opportunità di lavorare su come sia stato vissuto, se abbia suscitato emozioni o pensieri differenti e nuovi).
Il primo step che io in questi casi affronto è, come per Arianna, quello di mettermi in discussione: sono stata abbastanza empatica? “Troppo” empatica tanto da non stimolare il cambiamento? Ho provato ed entrare in relazione con la modalità che mi sembra essere più in risonanza con quella specifica persona? Uso il linguaggio più funzionale? Posto che sicuramente non posso essere la terapeuta “giusta” per tutti, e che ho ancora parecchia strada da fare, ci sono volte in cui però mi rendo conto, superata questa prima analisi su di me, che nonostante vari tentativi utilizzando varie modalità la situazione non cambia. Volte in cui è lampante già da inizio colloquio che la persona riprende il discorso da dove lasciato la seduta precedente dichiarando di non essersi mossa per nulla. E allora la domanda nasce spontanea: come mai persone che decidono di intraprendere un percorso che si basa sul movimento di scoperta di sé e di cambiamento, con tutto quello che questa scelta comporta in termini di investimento di tempo, impegno e risorse economiche, poi rimangono immobili? Ci tengo a questo punto a sottolineare con forza che queste riflessioni non vogliono mai e poi mai essere accuse, non cerco e non cerchiamo “colpevoli”. Cerchiamo di capire e di far nascere riflessioni che possono essere anche vostre da condividere con noi.
Devo dire che da quando ho proposto ad Arianna di scrivere questo approfondimento a 4 mani mi sono venute in mente diverse considerazioni che, a mio parere, si intrecciano anche se, per ogni persona, hanno pesi diversi.
Come prima considerazione non posso non fare un cenno al periodo sociale che ormai da 2 anni stiamo vivendo. Io non sono totalmente d’accordo con le spesso sbandierate dichiarazioni per cui la pandemia “avrebbe creato” disagio. Non è mia intenzione sminuire la portata di un evento del genere, per tante realtà devastante e distruttivo, ma credo che molto spesso la pandemia abbia fatto emergere o potenziato difficoltà che già si muovevano sotto il pelo dell’acqua della “normalità”. Posso però affermare che rilevo quotidianamente in studio una grande stanchezza, un senso di frustrazione e la percezione di essere “a credito” con la vita per cui l’impresa di mettere energia nel cambiamento è percepita come titanica.
Insomma, siamo stanchi ed è ben comprensibile e condivisibile.
Altra considerazione imprescindibile è relativa al fatto che l’uomo, per natura, ha spesso timore dei cambiamenti. L’idea ci mette in allerta e si vive una sorta di ambivalenza: desidero risolvere il problema ma poi come sarà? Come sarò io dopo? Come saranno le mie relazioni? E a questo segue a ruota la riflessione sul fatto che i nostri pensieri (e poi le nostre azioni e le nostre parole) si fondano saldamente spesso su convinzioni sedimentate nel corso degli anni. Convinzioni del tipo “ah, ma tanto io lo so, non sono mai costante!” oppure “ma io non ci riesco perché mio marito…”. E qui si apre inevitabilmente il capitolo relativo alla propria deresponsabilizzazione e all’attribuzione di responsabilità a chi ci circonda che ci “induce in tentazione”, ci fa innervosire, non capisce ecc… Su questo, lo sanno bene i miei pazienti perché poveri loro li “martello”, mi soffermo sempre molto durante i percorsi di terapia. E’ la riflessione che io chiamo, in modo davvero poco tecnico, “diamo a Cesare quel che è di Cesare”. Esempio: se io aggredisco mio marito a parole affermando che agisco così perché lui ha fatto “cosà” creo un nesso causale tra il suo comportamento e il mio falsato. Mio marito può aver fatto “cosà” – ed è vero – ma come io reagisco è (e anche questo lo dico sempre così, in modo molto poco tecnico) “roba mia”. Davanti al suo comportamento io avrei un ventaglio di possibilità di reazione: smettere di parlare, gridare, ironizzare, ignorare. Se aggredisco a parole la responsabilità è mia. Questo è un passaggio fondamentale in terapia, necessario. Si inizia a lavorare davvero su di sé quando si inizia a considerarsi anche “motore” di ciò che non ci piace e non necessariamente “effetto” ed effetto. Tutto questo è facile? No, affatto.
E qui, aggiungo, non posso non fare cenno a quello che a Genova chiamiamo “mugugno”, la lamentela che si perpetua nel tempo e finisce per essere fine a se stessa. Per alcune persone la lamentela diventa una modalità di reazione consolidata davanti alle difficoltà. Ci lamentiamo perché “è difficile”, perché “come si fa”, perché “ma io vorrei essere così”. Ma attenzione: se si concede troppo spazio mentale alla trappola della lamentela questa ci bracca, ci risucchia come le sabbie mobili. E ci ritroviamo, nel tempo, a rivestire il ruolo della vittima, di colui o colei che va ascoltato, capito, confortato. Il ruolo di chi cerca aiuto ma che chiede, indirettamente, che il terapeuta faccia una magia mentre tutto rimane sostanzialmente fermo. Capirete sicuramente benissimo a questo punto che attivarsi per cambiare, partendo da questa posizione, diventa davvero molto difficile. E continueremo allora a lamentarci, del passato, del presente, di ciò che immaginiamo per il futuro. Ci lamenteremo anche per cose giuste, certo. Ma questo non favorirà nessun cambiamento. Nessuno. E allora via ad un circolo vizioso infinito: nessun cambiamento=frustrazione=“non cambierà mai”=altra frustrazione, e così via. E anche in questo caso sono chiamata a ricordare che l’unica possibilità per riuscire ad interrompere il meccanismo è quella di assumersene la responsabilità.
Possiamo forse non fare cenno, in questa disamina, al messaggio da cui siamo perennemente bombardati per cui su tutto si può agire facilmente? Per cui “tutto il mondo è costruito intorno a te”? Per cui “sei triste e allora prendi due gocce?”. Ma che ce ne facciamo di questo messaggio quando, invece, siamo di fronte ad un obiettivo da raggiungere che ci richiede costanza, impegno, decisione?
Ribadisco con forza, in chiusura, che queste riflessioni condivise non vogliono essere “accuse”. Non vogliono essere (per carità!) il “se vuoi puoi” di turno, da cui io mi dissocio con fermezza.
Vogliono essere condivisione, spunto di riflessione, timida sollecitazione al movimento, non importa se impercettibile.
Le cose non cambiano. Siamo noi che cambiamo.
E la prima e unica possibilità per iniziare a farlo è quella di sceglierci, di scegliere quello che siamo, che pensiamo, che mettiamo in atto. E’ tutta “roba nostra”.
“È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare”
Carl Rogers
One Comment
Secondo me una delle cause di questo ‘non agire’ è il fatto di aver vissuto due anni in isolamento, nella più totale impossibilità di programmare alcunché, con tutti che parlavano sempre e solo di covid e pandemia, come se non esistesse altro. Anzi sì, quelle rarissime volte che si parlava d’altro era per passare a qualcosa di ancora più inquietante, tipo guerra in afghanistan, riscaldamento globale, estinzione di massa… non c’è nessuna idea di futuro.
Da un lato, il trascorrere sempre più tempo online ci ha abituato a una modalità in cui la gratificazione è immediata, lo sforzo minimo, la distrazione tanta… dall’altra, l’incertezza e l’ansia ci hanno reso molto più passivi e dipendenti (dal cibo, dalle compulsioni, dalle relazioni anche se malsane…).
Perciò se, faccio un esempio, ho tendenza alle abbuffate compulsive, come strategia di gestione dello stress che mi viene da un lavoro che mi sta stretto, una relazione tossica, in generale una mancanza di autostima… posso rivolgermi a un terapeuta per farmi aiutare, perché mi rendo conto che le abbuffate sono un problema a livello di salute, e mi fanno ingrassare mentre io vorrei essere magra ecc… però poi quando la terapia inizia a lavorare sulle cause delle abbuffate, io non sono in realtà pronta a mettermi in discussione, perché ho paura di mettere in discussione ‘i pilastri’ della mia vita (ad es, coppia, lavoro) soprattutto quando tutto intorno non si fa altro che ripetere che il futuro è incerto, trovare un lavoro è un miraggio (figuriamoci un lavoro appagante!), le relazioni sono facili da disfare ma difficili da costruire (veniamo da due anni in cui in pratica frequentare sconosciuti era impossibile).
Con tutte queste incognite, è chiaro che la spinta a rimanere nella mia ‘discomfort zone’ è molto più forte della spinta a intraprendere un cambiamento. In fondo, le abbuffate mi proteggono dal dover affrontare l’ignoto, il rischio, il nuovo… per due anni ci è stato detto ‘tappatevi in casa, non rischiate, non vivete, i corpi sono pericolosi, si può sostituire la vita vera con il suo surrogato…’. Adesso non mi stupisce che le persone non abbiano la forza di reagire…
Non è solo colpa della pandemia certo, ma è come se il muscolo della volontà e del desiderio si sia atrofizzato per mancanza di esercizio…