“Hai rapporto burrascoso con il cibo? Usa il cervello!”
Potrebbe sembrare uno slogan pubblicitario, non trovate?
Invece è semplicemente un consiglio che ci viene dalle Neuroscienze.
Come sapete sono una dietista un po’ atipica: cerco di prendere spunti multidisciplinari per arricchire il mio bagaglio professionale. So, sapete, sappiamo, che per l’uomo il cibo non è mero “nutrimento”, come accade invece per gli animali: mangiamo anche quando non abbiamo fame, mangiamo per convivialità, amore, rabbia, frustrazione, gola. Una dieta, per quanto perfetta possa essere, da sola non è mai sufficiente: l’equilibrio dei nutrienti di per sé è futile, se non si accompagna a un equilibrio nel rapporto con il cibo (e con il proprio corpo).
E’ per questo motivo che la cura di un DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare) deve prevedere la collaborazione tra esperti: dietista, psicologo e medico sono fondamentali, ma sarebbe interessante poter cooperare anche con altre figure professionali. Tra esse ritengo che una delle più valide sarebbe un neuroscienziato, e no, non lo dico perché sono di parte, avendo un fratello laureato in Neuroscienze! Lo dico perché ho avuto modo di leggere interessanti libri di Neuroscienze e Scienze Cognitive, i cui contenuti mi hanno dato ricchi spunti per la mia professione. Mi riferisco, ad esempio, ai saggi di D.Goleman sull’intelligenza emotiva, oppure alle pubblicazioni di N.Doidge sulla plasticità cerebrale.
Partendo da questi input, ho pensato che sarebbe interessante, di tanto in tanto, pubblicare qualche “pillola di Neuroscienza” che abbia un’utilità pratica nel campo dell’alimentazione.
Spero di cuore che mio fratello, leggendo queste righe, non pensi che io stia dicendo blasfemie e non mi rinneghi!
Partiamo oggi prendendo in considerazione i condizionamenti associativi, ossia le associazioni neuronali di diverse aree cerebrali.
No, aspettate a chiudere la pagina: ve lo spiego in modo molto semplice.
Esistono aree cerebrali che si attivano quando facciamo qualcosa, ad esempio quando mangiamo. Ed esistono aree cerebrali che si attivano quando proviamo qualcosa, ad esempio rabbia. Le due cose sembrerebbero essere del tutto svincolate l’una dall’altra, e in effetti è proprio così. Tuttavia gli scienziati hanno dimostrato che quando due aree deputate a funzioni diverse sono attivate contemporaneamente, iniziano a stabilire un collegamento reciproco: in Psicologia questo fenomeno è detto condizionamento associativo operante, e può interessare i più disparati comportamenti, non solo quelli alimentari.
Da un punto di vista neuroscientifico vengono approfonditi passaggi intermedi.
Quando una persona è in ansia, preoccupata, triste o rabbiosa, il suo corpo inizia a mettere in circolo ormoni dello stress, che abbassano i livelli di altri ormoni (dopamina e serotonina), che normalmente ci regalano uno “steady state” di equilibrio e normalità. Se dopamina e serotonina sono basse il nostro equilibrio psichico è perturbato, e noi saremo indotti a intraprendere azioni piacevoli che aumentino nuovamente la produzione delle due molecole.
Esistono diversi modi di rialzare i livello di serotonina e dopamina, tra cui *anche* mangiare carboidrati (dolci, cioccolato).
La dopamina si alza anche con l’attività fisica o nel momento in cui raggiungiamo un obiettivo che ci renda orgogliosi di noi stessi. La serotonina aumenta anche con la respirazione profonda, lo yoga e… i baci e gli abbracci!
Più rispondiamo agli ormoni dello stress e alle emozioni negative facendo sport o meditando, più consolideremo quella nostra risposta cognitiva. Ma ogni volta che rispondiamo allo stress mangiando, il sistema limbico rafforza il legame tra bassi livelli di serotonina e azioni che portano a mangiare cioccolato, tale per cui si arriverà ad un certo punto in cui le due aree cerebrali non potranno che accendersi contemporaneamente. Saremo, nostro malgrado, intrappolati in un circolo vizioso.
Questo lo possiamo notare anche per altre banalità: vi è mai capitato di sentire appetito perché vi siete resi conto che l’orologio segna le 13.00? C’è un legame associativo tra orario del pasto e appetito. Oppure, avete per caso un cane che rizza le orecchie quando vi vede prendere il guinzaglio, anche se non è ora della passeggiata? Altro legame associativo. Vi potrei fare numerosissimi esempi, ma penso che questi siano sufficienti a farvi capire cosa sia il legame associativo.
Bene, se l’articolo si concludesse qui non vi avrei dato alcun suggerimento pratico: mi sarei limitata a esplicitare con termini scientifici qualcosa di cui molti di voi si sono già resi conto.
Il passo successivo è quello che ci viene consentito dalla neuroplasticità.
Le connessioni neuronali non sono immutabili: sono fluide, sono modificabili attraverso il principio “use it or lose it”. Usalo o perdilo: è un vero e proprio allenamento. Se esercitate un certo tipo di legame associativo, esso si consoliderà; se non lo esercitate più, lo perderete.
Se vi sforzate coscientemente di non cadere al richiamo del cibo quando sentite emozioni negative di rabbia, tristezza, solitudine o noia non state semplicemente “evitando un’abbuffata”, ma state indebolendo un legame associativo. Più reiterate questa vostra scelta (ossia, quella di non mangiare in risposta alle emozioni disturbanti), più vi avvicinate alla disattivazione completa del legame.
Bisogna essere parte attiva e collaborativa al cambiamento, perché una sinapsi tristezza-cioccolato o rabbia-abbuffata allenata da anni sarà dura a disattivarsi: non bisogna darsi per vinti, e bisogna essere fiduciosi.
Questo vale per tutti i legami associativi: rimanendo nell’ambito dei DCA c’è chi risponde al malessere interiore vomitando o digiunando. Anche questi sono legami associativi.
Andando oltre, potremmo estendere questo principio anche ad episodi di autolesionismo o ad attacchi immotivati d’ira.
Il primo passo da compiere è il più arduo: riconoscere l’emozione che sta alla base di un comportamento alimentare dannoso. Si chiama rabbia, tristezza, ira, frustrazione? Diamogli un nome, individuiamo a cosa associamo la nostra assunzione incontrollata di cibo (o, all’opposto, il nostro rigido controllo di esso).
Secondo passo, altro step difficoltoso. Troviamo *un’altra* associazione comportamentale, stavolta positiva, con la quale affrontare l’emozione negativa. Dobbiamo trovare quest’alternativa *prima* di trovarci in difficoltà: in un momento in cui siamo sereni, facciamo una lista di 2-3 cose da fare quando il problema si presenta. Metterci lo smalto alle unghie? Dedicarci a un album di fotografie? Scrivere un diario? Acqua fredda sui polsi? Dev’essere qualcosa di semplice, a cui attingere immediatamente. E che ci faccia star bene, chiaramente.
Questo passo è difficile anche perché non dobbiamo cadere da un comportamento deleterio ad un altro: se sostituiamo il “cioccolato” con lo “shopping online” non ne avremo tratto molto vantaggio… Per altro, questo è il motivo per cui sia così facile cadere da un disturbo di dipendenza ad un altro: sostituire l’ipercontrollo o le abbuffate con lo sport ossessivo, o la sigaretta con il caffè.
Terzo passo. Facciamo scattare un campanello d’allarme ogni volta che siamo in una situazione a rischio: quando ci troviamo in una situazione in grado di sollecitare un’emozione negativa, non lasciamoci naufragare in essa, ma riconosciamola. Chiamiamola con il suo nome: “sono triste. Sono in ansia. Sono arrabbiato”.
A questo punto, mettiamo in atto il comportamento che abbiamo deciso essere sostitutivo al cibo, e *obblighiamoci* ad eseguirlo: ve l’ho detto, la sinapsi emozione-cibo non si disattiva magicamente, ci vogliono mesi di disuso prima che le due aree cerebrali non si attivino contemporaneamente, com’erano invece abituate a fare. E’ qui che entra in gioco la nostra volontà: nel voler disattivare la connessione. E’ molto più di un semplice “resistere” o “avere il controllo”: quel tipo di volontà è inutile, se non si comprende in che modo poterla convergere a scopo produttivo e fertile.
Non trascuriamo che la sinapsi è a doppio senso, e questo lo sa bene chi soffre di DCA o di rapporto conflittuale con il cibo: alcuni cibi (pizza, patatine, dolci…) vengono accuratamente evitati per la paura di non saperli gestire, dal momento che in genere vengono consumati solo durante le abbuffate. I biscotti in risposta alla tristezza, e i biscotti che generano tristezza.
Il cibo comincia a caricarsi di un “significato emotivo” attribuito da noi stessi. Come scioglierlo da tale fardello? Evitarlo non farebbe altro che rafforzare il legame (“lo evito perché se lo mangio chissà cosa succede”: una profezia che si autoadempie). Il segreto sta nell’associare il cibo che ci siamo auto-vietati a situazioni piacevoli e di svago, cosicché cominci ad attivarsi una sinapsi (ossia una connessione neuronale) con un sentimento positivo: quando siamo a cena con il fidanzato concediamoci il nostro dolce preferito, ma evitiamolo se abbiamo appena litigato con lui. Creiamo un’abitudine familiare del sabato sera, dove mangiare insieme la pizza e vedere un film. Quando usciamo con la migliore amica a fare shopping, fermiamoci a prendere un gelato con lei.
Se siamo costanti nel ri-abituarci, ecco che cominceremo a conservare solo ricordi positivi associati a quel cibo che a lungo ci ha fatto paura, e che comincerà a darci vibrazioni positive anziché negative.
Tra parentesi, questo è il motivo per il quale probabilmente i vostri figli mangiano volentieri gli spinaci quando vanno a casa dell’amichetto/a, ma si rifiutano di mangiarli quando sono a tavola con voi, anche se li avete cucinati allo stesso modo o addirittura anche se gli spinaci sono proprio quelli che vi ha dato la mamma dell’amichetto/a!
Gli spinaci “della mamma di Luca” sono stati mangiati dopo un pomeriggio di giochi con l’amico… Potrebbero forse avere un brutto sapore?
Le sinapsi dei bambini sono un mondo tutto nuovo, sapete? Iniziate proprio voi genitori il loro rafforzamento: capite la differenza che potete determinare se sedate i sui capricci e i suoi pianti con una merendina piuttosto che giocando con loro?
21 Comments
articolo veramente molto utile e a tratti illuminante.
…articolo estremamente interessante. Complimenti! Capita spesso di mangiare dopo cena quantità esagerate di cibo (quasi mai junk food) e leggendo il tuo articolo credo proprio che sia dovuto al fatto di sentirmi più “libero”: bambini a nanna, silenzio irreale in casa, poter vedere rilassato la tv…e come se “mollassi gli ormeggi” 😉
Potrebbe anche essere che durante la giornata mangi troppo poco? A molto uomini capita, parola di dietista che ne ha visti tanti in ambulatorio con problemi di voracità serale, non necessariamente sovrappeso 🙂
hai ragione, e più volte anch’io ho fatto la lista delle cose che mi piacciono e mi rilassano nei momenti di stress o di noia…il problema è che questa lista non la trovo mai al momento del bisogno a differenza del gelato che è sempre nello stesso posto!!! 😛 Scherzi a parte, è vera ogni singola parola, e posso pure aggiungere che certe volte, se “alleniamo” i pensieri positivi e i ricordi di soddisfazioni passate basta un semplice richiamo alla memoria per allontanare il rischio di un’abbuffata!
Lista da appendere sullo specchio! O sullo sportello del freezer 🙂
Ciao Arianna 🙂 Mi permetto di scriverti quello che penso, perché so che sei una persona intelligente e professionale e che sarai quindi in grado di capire il tono delle mie parole. L’articolo è ovviamente ben scritto, ma ritengo che parlare di questi argomenti sia “rischioso” per due motivi principali: prima di tutto, a mio parere banalizza eccessivamente i meccanismi neuronali che sottostanno ai DCA e soprattutto la loro possibile soluzione. Il condizionamento è troppo semplicistico per spiegare l’enorme complessità di queste problematiche, perché oltre che all’associazione stimolo positivo/negativo – risposta entrano in gioco mille altri fattori (i meccanismi di difesa, le resistenze psichiche, il rapporto con il proprio corpo…….) che sono molto più radicati nella nostra psiche e che ancora non siamo in grado di comprendere fino in fondo. Non siamo cani o scimmie, sui quali la maggior parte degli studi sul condizionamento si è focalizzata, ma siamo enormemente più complessi. Secondo rischio: pensare che se “mi impegno” indebolirò le sinapsi “negative” e ne formerò di nuove, se ho costanza e forza di volontà ce la farò. Certo, è ovvio che questi ingredienti siano fondamentali per la riuscita di un percorso terapeutico, ma a dire così il rischio è che le persone, se non riescono a raggiungere questo obiettivo (per una serie infinita di motivi diversi) si sentano ancora più inadeguati e frustrati. La terapia dei DCA (che sia cognitivo-comportamentale, psicodinamica o di qualsiasi altro orientamento) non è la mera esecuzione di esercizi di volontà, ma il cambiamento passa attraverso la relazione terapeutica con un bravo psicoterapeuta. Quello è il solo modo di risolvere veramente questa gravissima problematica, se no il risultato sarà solo di effettuare uno “spostamento” delle proprie convinzioni errate sul cibo (ad esempio, a me è capitato di passare dalla fobia dei grassi, che ora utilizzo senza problemi, a quella di qualsiasi tipo di dolce), come tu hai giustamente citato.
Un’altra cosa molto importante che vorrei dire, e la scrivo dove tutti possono leggere perché ritengo sia fondamentale che si sappia, è che non basta aver letto qualche articolo o manuale di neuroscienze o di psicologia per poter dare dei consigli a riguardo…Io, come tutti quelli della mia categoria professionale, ho dovuto studiare 5 anni all’università + 5 ulteriori anni di scuola di specializzazione per potermi definire psicoterapeuta, ma mi ritrovo circondata (nel mondo reale, ma soprattutto su internet) da figure professionali completamente diverse che, solo perché appassionate di questi argomenti, credono di poterne scrivere fornendo anche indicazioni pratiche…Purtroppo in giro si crede che tutti possano essere psicologi, basta avere empatia ed essere bravi a dare consigli…Per non parlare poi dei fiorire di corsi NON RICONOSCIUTI (vedi counselor, life-coach e spazzature varie), che sfornano persone che nella pratica fanno solo danni perché non hanno basi teoriche né soprattutto pratiche per poter fare questo tipo di lavoro, che è di pertinenza solo di psicologi, medici e psicoterapeuti. La dietista in cui mi sono imbattuta qualche mese fa ha fatto uno di questi corsi, ma poi non è assolutamente stata in grado di “reggere” all’impatto delle problematiche che sono inevitabilmente emerse (come sai, lotto ancora con il mio DCA) e ha reagito nella maniera peggiore in assoluto, cioè si è spaventata e mi ha lasciata al mio destino. Con questo voglio dire che sia un’incompetente? No, semplicemente si è addentrata in un campo non di sua pertinenza.
Quindi, nell’era di internet in cui tutti sanno tutto di tutto, mi piacerebbe ribadire “a ognuno il suo”! Come io non mi permetto di dare consigli dietistici ai miei pazienti (anche se leggo tanto sull’argomento e sicuramente ho più nozioni dell’italiano medio), non avendone la competenza, mi piacerebbe che nessuna figura al di fuori delle tre citate prima desse consigli di tipo cognitivo-comportamentale o psicoterapeutico. E’ veramente frustrante e penso che tu sia perfettamente in grado di capire il concetto, dato che immagino che moltissimi si improvvisino esperti di alimentazione solo perché leggono molto sull’argomento.
Buon proseguimento 🙂
Cara Camilla, hai fatto benissimo a lasciare questo commento e spero di riuscire a rispondere in modo sufficientemente esaustivo 🙂
La mia intenzione non era affatto quella di usurpare il lavoro di nessuno: mi conosci, e sai che mi faccio scrupoli su tutto. Di certo un argomento come quello di cui ho trattato in questo articolo rimane ben fuori dal mio studio e dalla terapie delle mie pazienti: a volte faccio fatica a fare la dietista, figurarsi la “””LIFE COACH””” improvvisata!
Il mio intento in questo articolo era solo ed esclusivamente quello di presentare un altro modo – sinergico e non isolato – per affrontare un cattivo rapporto con il cibo: tra l’altro, mi son guardata bene dal parlare di DCA veri e propri anche questo motivo. Come ho scritto si tratta proprio solo di uno spunto, un “c’è anche questo”; non è, come per altre sezioni del sito, un argomento che aprirà un filone. Non è mia intenzione né spiegare certosinamente i meccanismi biochimici né dare soluzioni magiche: solo aprire un focus, che, mi auguro, possa spingere qualcuno che incappi nel sito a chiedere un supporto cognitivo-comportamentale per il proprio problema.
Se tratterò nuovamente l’argomento (ma, a onor del vero, le altre “pillole” che avevo in mente non avevano proprio nulla a che fare con DCA) vedrò di non cadere nella trappola dei ‘consigli’, ma solo nella presentazione di dati di fatto/ricerche/scoperte. Nulla di più di quello che troveresti su una notizia ANSA, per intenderci 🙂
[Ma se tu, professionista, prima o poi volessi scriverne……… Sarebbe un onore!]
Detto questo, sono perfettamente d’accordo su quello che mi hai scritto all’inizio del commento (“non siamo cani, non siamo scimmie”): le mie perplessità maggiori riguardo le Neuroscienze hanno proprio a che fare con i rapporti di causalità e consequenzialità che mirano a fare emergere da ogni lato comportamentale umano. Non sono le combinazioni chimiche di endorfine e catecolammine che ci rendono tristi, stanchi o felici: il determinismo è la trapola più deleteria in cui si possa cadere quando si parla di comportamento umano. Mi guardo bene, quindi, dal banalizzare qualsiasi problematica con un “se questa è la causa, DEVI fare così”: come ho scritto nell’articolo e come ribadisco qui, i DCA si superano con una sinergia di professionalità (e non solo i DCA).
Forse in quanto ho scritto ieri non era chiaro (errore mio), ma l’articolo non era un invito all’autoguarigione o all’esaltazione dei “poteri del cervello”. Vedrò di non ripeterlo in futuro!
Carissima, grazie per la tua risposta 🙂 Sapevo che saresti stata in sintonia con le mie parole, perché credo ormai di avere abbastanza chiaro il tuo punto di vista 🙂 Ci tenevo a fare le puntualizzazioni che ti ho scritto, non tanto per te (so che alcune cose le hai date per scontate), ma per chi legge e non ha abbastanza strumenti per avere sufficiente spirito critico. Come sai, siamo bombardati da ogni parte da consigli per raggiungere il benessere con relativa facilità e spesso le persone, quando leggono gli articoli, trattengono in memoria soltanto poche nozioni semplificate 🙂
Sono d’accordo con le tue perplessità sulle neuroscienze. Per quanto sia un campo di ricerca promettente e affascinante, credo che oggi sia diventato parecchio “inflazionato”. A volte ho letto articoli da far accapponare la pelle, dove ad esempio sostengono di aver trovato l’area cerebrale del perdono, dell’empatia, o di qualsiasi altra emozione complessa, come se avessimo delle lampadine in testa che si accendono a seconda di quello che ci succede. Poi leggendo bene, in questi studi spesso prendono in esame un campione di meno di 10 persone, impegnate in compiti artificiali che dovrebbero simulare situazioni reali, mentre sono stese dentro ad uno scanner per fMRI….Ma come sarà mai possibile generalizzare i risultati?? 🙂 Però fa notizia!
Mi piacerebbe tanto collaborare con te, e te l’ho detto anche in passato…Attualmente ho ancora parecchie difficoltà ad affrontare con distacco certe problematiche, ma andando avanti con il mio percorso conto di poterlo fare senz’altro!!
Un abbraccio! 🙂
Cara Camilla, cara Arianna.
Posso fare una domanda a tutte e due, visto che ho sofferto di DCA ormai da… si può dire sempre visto che parliamo di decadi?
Vorrei chiedere a tutte e due perchè al momento non esiste un trattamento per le persone che, come me e tantissime altre, hanno un DCA cronicizzato. Trattato ambulatorialmente, trattato in day hospital, trattato in ricovero in strutture specializzate, anni di psicoterapia, tanti stili di cura, tantissimi risultati ma… alla fine, l’innesco c’è ancora e basta un piccolo cambiamento nella routine (una, cento, mille routine che nel corso degli anni si sono formate e sono state abbandonate, cercando sempre di migliorare un po’) per far uscire dei sentimenti e delle sensazioni fisiche che sono di base le stesse che provavo quando il DCA mi si è attaccato addosso. Fortuna che, come il matematico di A beautiful mind, che riconosceva le sue allucinazioni per dei tratti caratteristici, anche i pensieri disfunzionali “non cambiano mai” e, quindi, ci si può fermare in attesa che passi la bufera. Fermare però! Non certo andare a fare shopping con le amiche e trallallerò trallallà canticchiare come se niente fosse! Parlo di paralisi, di pianto disperato per ore, di sforzo disperato per uscire da sè che da un lato protegge dal compiere gesti inconsulti, dall’altro però non permette di fare niente! Altro che smalto sulle unghie!
Sicuramente in questo genere di sensazioni c’è un coinvolgimento neurologico, altrimenti non proverei (proveremmo!) sensazioni fisiche così importanti ed invalidanti, non trovate?
Allora mi sono chiesta tante volte: non è che per caso il DCA mi ha salvato la vita, in certi casi? Non è che abbuffarmi o non mangiare è stata la mia alternativa a qualcosa che era forse anche peggio? In fondo, non mangiare (o abbuffarsi) è brutto e fa male, ma credetemi: provare quello che io e quelle come me provano quando “si sentono grasse” è altrettanto brutto se non peggio e fa sicuramente altrettanto male.
Un abbraccio e buon lavoro,
Anna (a proposito, Anna è un nome di fantasia. Scusate)
Carissima Anna, purtroppo il tuo commento richiede una risposta che non posso dare: forse è mia mancanza non conoscere la risposta, o forse la risposta non è mai stata indagata a fondo dagli esperti di DCA. Mi spiace davvero, ma credo che i commenti sul sito non siano nemmeno luogo di approfondimento specifico… anche perché (mia mancanza di nuovo) non sono una dietista specifica per DCA, quanto per diete ormonali. Mi spiace davvero, tratto di questi argomenti in modo tangenziale sul mio sito.
Anna leggi il libro “brain over binge” .. è la storia di questa ragazza che ha smesso dopo che anni di psicoterapia non avevano funzionato…credimi ti cambia la vita !
C’è solo in inglese….
Purtroppo la fame emotiva spesso si trasforma in qualcosa di più forte e incontrollabile. La mia fame emotiva che negli utlimi tempi sta diventando davvero ingestibile, non so più nemmeno se sia davvero “emotiva”. A volte mi capita di trangiugare cose a caso anche se sto bene. Ho provato a cercare di dare un nome alle sensazioni che l’accompagnano ma è quasi impossibile. A volte compare dal nulla, a volte potrebbe essere connessa a così tante emozioni che individuare quella che l’ha scatenata diventa un’impresa epica da farti scoraggiare in partenza. I diari alimentari li ho trovati inutili così come trovare alternative: insomma questa terribile fame che propriamente fame non è, potrebbe essere relazionata a tutto. Se io continuerò ad essere ansiosa, a tratti paranoica o con poca autostima, significa che la mia fame emotiva mi accompagnerà tutta la vita? Questi sono purtroppo dei miei tratti caratteriali e c’erano ancora prima che la fame emotiva comparisse. Insomma, è cosi dannatamente difficile individuarne la causa scatenante. Sto leggendo un libro al riguardo (Brain over Binge di Kathryn Hansen) in cui viene affrontata l’ipotesi che il disturbo da fame incontrollata (binge eating: vero e proprio DCA) non sia da indagare su basi psicologiche ma di natura prettamente cerebrale: in estrema sintesi, secondo l’autrice che racconta la sua storia, è il cervello animale che ci spinge a mangiare voracemente, dopo averlo messo alla prova con delle diete, per puro bisogno di sopravvivenza. In questo caso è il mettersi a dieta, una delle principali cause che porta a un DCA. Riconoscere la distinzione tra cervello animale e cervello umano (animal brain vs. human brain nel libro), ha aiutato l’autrice ad uscire da 8 anni di bulimia, discostandosi in maniera netta dai principi della terapia tradizionali che ha affrontato per anni. Sono seguita da una psicoterapeuta da diverso tempo, anni, e ancora non sono venuta a capo di nulla..non perchè la mia psicoterapeuta non sia valida e in gamba, ma perchè “riconoscere le emozioni” rappresenta un processo estremamente lungo e faticoso che spesso accompagna tutta la vita. Devo davvero rincorrere le mie emozioni per usicre fuori da questa cosa?
Penso che la terapia più indicata è quella cognitivo-comportamentale, che non trascura nessuno dei numerosi aspetti che subentrano in un DCA.
Martina leggi il libro “brain over binge” ti assicuro che funziona.. !
Cara Arianna,
sono in cura presso uno psichiatra e una psicologa per ansia e perchè esercito un iper controllo sulla mia alimentazione ormai da due anni a questa parte. Devo ammettere che ci sono stati dei miglioramenti notevoli nell’ultimo anno, su molte cose ho allentato la presa, adesso mangio la pizza una volta a settimana e mi concedo un gelato anche due volte. Lo so, sembra poco, eppure per una che non usciva per attenersi alle sue regole, evitava situazioni sociali e di convivialità…è tantissimo 🙂 E sono molto ottimista e positiva, oltretutto. Purtroppo a questi momenti di ipercontrollo ho alternato, come nella più classica di queste situazioni, casi isolati di abbuffate, perchè non percepivo la sazietà nella testa. Ovvero: stomaco pieno, pancia dolorante ma la mia mente era ancora affamata e mi costringeva a mangiare ancora e ancora.
Il tuo articolo offre sicuramente spunti interessanti, ma mi trovo in difficoltà nell’accettare la neuroplasticità. Nel senso: non che non credo che esista, ma non credo che modificare un comportamento sia qualcosa che si possa fare in modo autonomo o basandosi su una regola che a raccontarla sembra molto facile da applicare. Quando una persona si abbuffa, è come se il cervello andasse in tilt. La saracinesca si chiude. Apparentemente io non sono mai triste, arrabbiata, felice, tesa, quando lo faccio. Ho semplicemente solo fame, e rispondo a questo bisogno con la cosa più ovvia del mondo: mangiare. Idem l’ipercontrollo. E’ una cosa talmente tanto radicata in me ormai, così normale, che non posso ricondurla a nessuna emozione specifica. La riconduco alla mia vita, perchè per me ipercontrollare ormai ha la stessa naturalezza del lavarsi i denti dopo mangiato.
Per questo ritengo che seppur questo articolo sia interessante, ben scritto e offra comunque un utilissimo step da cui partire, non si possa prescindere dall’unica e sola soluzione disponibile: ricorrere ad un aiuto medico valido, cosa che tra l’altro tu dici all’inizio. I DCA non si possono curare in autonomia, e sono molto duri da estrapolare 🙁
Baci e grazie…
Angela
Spero che tu abbia avuto occasione di leggere la mia risposta ai commenti precedenti 🙂
Grazie per la tua testimonianza e, di cuore, in bocca al lupo per il tuo percorso!
Angela to invito al leggere il libro “brain over binge” parla di una ragazza bulimica che dopo anni di terapie fallimentari è riuscita a smettere da sola, in pochissimo tempo comprendendo come funziona davvero il cervello umano. Prima di rispondere qualsiasi cosa ti invito a leggere il libro perché capovolgerà tutto ciò che pensi, ti assicuro.
Ottimo articolo!! Grazie mille!! NAMASTE
Articolo fantastico ma mancano 2 concetti fondamentali.. che aiutano poi a mettere tutto in pratica:
1. dobbiamo staccarci dal concetto che il sistema limbico detto anche “animal brain”..siamo noi. No tutto ciò che ci tende esseri pensanti è nel cosiddetto human brain nella parte frontale del cervello. Quindi ogni volta che ci viene uno stimolo esempio “tristezza-cibo” .. in realtà non viene da “noi” o è come se un altra persona lo dicesse perché ciò che noi vogliamo razionalmente è NON mangiare quel cibo. Dato che non siamo noi a volerlo possiamo tranquillamente ignorare lo stimolo.
2. Solo la parte frontale del cervello è quella che permette ogni tipo di movimento e quindi azione… Quindi anche se il sistema limbico ci dice ad esempio di mangiare.. spetta a “noi” l’ultima decisione e quindi l’azione concreta in sé, quindi siamo “noi” ad avere il controllo, il potere! Questo da una grande forza anche per estirpare tutte le altre cattive abitudini che abbiamo.. perché appunto il nostro sistema limbico date le connessioni che abbiamo stabilito ci dice che dobbiamo fare quella cosa altrimenti chissà quali cose terribili potrebbero succede..ma la verità è che non succede niente e non moriremo se non mangiamo quel cioccolatino o se prendiamo le scale anziché l’ascensore.
Sono stata molto sintetica ma tutti i concetti si trovano nel libro “brain over binge” che sta
veramente cambiando il mio rapporto con il cibo e con tutti gli aspetti della mia vita!! Tutto: rapporto con gli altri, impegno universitario e oltre ! consiglio veramente a tutti la lettura!
Ciao Viviana, ho il libro che citi qui vicino a me. Peccato sia in inglese, lingua che non conosco.