Sapete cos’è un bias?
Se siete professionisti della salute, forse sì: i bias sono distorsioni cognitive che non permettono la valutazione di un fatto che dovrebbe oggettivo e quindi neutro, non inficiato da pregiudizi soggettivi.
Vi faccio un esempio pratico esemplificativo, che di solito uso con le pazienti a cui voglio spiegare proprio il concetto di bias: di solito vi mettete jeans neri. Un bel giorno decidete di mettere jeans bianchi e, guarda un po’, come tutte le volte che mettete i jeans bianchi ecco che si sporcano mentre state mangiando o mentre siete al parco a passeggiare! Possiamo concludere che i jeans bianchi siano la causa delle nostre macchie? Possiamo concludere che i jeans bianchi si sporchino più facilmente di quelli neri? Apparentemente sì, ma è un bias: semplicemente, stiamo ignorando che sui jeans scuri le macchie si vedono meno, e quindi non le notiamodi più.
Il marketing e la politica fanno un’enorme leva sui bias, per spingere ai propri vantaggi: lo fanno consapevolmente, coscientemente, a scapito invece di chi subisce il bias e ne viene condizionato. Vi rimango al link di Wikipedia, perché ritengo che sia molto interessante e che, in una qualche misura, ci aiuti ad essere consumatori e cittadini più consapevoli.
Esistono diversi tipi di bias, tutti riconosciuti e opportunamente classificati: ho deciso di scrivere questo articolo perché è importante sapere che esistono anche in ambito di salute e nutrizione, e che possono pesantemente condizionare il nostro modo di relazionarci al cibo.
Vi elenco tre bias legati all’alimentazione che riscontro con estrema frequenza nei miei pazienti.
Convinzione che un dato alimento faccia male alla salute
Forse lo abbiamo letto su qualche rivista, forse l’ha scritto qualche medico sui suoi social: l’alimento X fa male, e il suo consumo porta a conseguenze per la salute (dove X può stare per: glutine, latticini, dolci, caffè…).
Se ci troviamo in un momento di particolare fragilità, potrebbe essere che assolutizziamo quella informazione: iniziamo a credere che il consumo del tal alimento sia terribile per noi, e lo scanseremo come la peste. Le rare volte in cui ce lo concediamo o ci capita di assaggiarlo, percepiamo tutto il malessere ad esso collegato: mal di pancia, mal di testa, gonfiore… “Ecco, lo sapevo, non dovevo mangiarlo”!
Nel 99% dei casi questo processo cognitivo è viziato da più di un bias: siamo talmente convinti della nostra ipotesi (ossia che l’alimento X sia dannoso), che non la mettiamo affatto in discussione; non siamo disposti a chiederci se effettivamente sia fondata: così è, basta. A rafforzare la nostra ipotesi, portiamo dimostrazioni che alla fin fine sono utili proprio a questo fine, ignorando o sminuendo altre possibili spiegazioni. È un cosiddetto bias di conferma.
Volete un esempio pratico?
Abbiamo letto che gli zuccheri causano un picco glicemico che causa intorpidimento, sonnolenza e gonfiore. Ci asteniamo rigorosamente dal consumo di zuccheri, ma la domenica non possiamo proprio sottrarci dalla fetta di torta offerta dalla cognata: nel pomeriggio, ci sentiamo assonnati, nervosi e gonfi. Perché? È colpa del dolce, chiaramente!
Siamo disposti a pensare che, magari, abbiamo bevuto vino a pasto a cui non siamo abituati? O che il pasto consumato sia, nel suo complesso, più abbondante e condito del solito, e di conseguenza la nostra digestione sia più impegnata e le nostre energie cerebrali siano in momentaneo standby?
Un altro esempio pratico?
Abbiamo letto che il glutine fa ingrassare e gonfia. Eliminiamo il glutine dalla nostra alimentazione, e nel giro di un paio di settimane perdiamo 2-3 kg: allora è vero, il glutine fa proprio ingrassare! Infatti, appena ci concediamo una pizza, ecco che la bilancia segna un chilo in più!
Anche in questo caso: abbiamo concretamente le competenze per analizzare tutta la situazione, e distinguere quella che è una correlazione effettiva da una apparente? Da dietista posso dirvi che quel che sovente accade in questi casi è semplicemente che l’eliminazione del glutine corrisponde all’eliminazione di fonti di carboidrati: il dimagrimento e la sensazione di sgonfiamento è dovuto a questo fatto, non al glutine di per sé. Abbiamo tolto pasta e pane, abbiamo bandito pizze e focacce, abbiamo immolato dolci e biscotti: di fatto, abbiamo tagliato le calorie, ecco perché dimagriamo. E poi magari questi alimenti sono stati sostituiti con altri che hanno una concentrazione di carboidrati inferiore, e non pari (patate, secondo piatti, verdura o frutta): ecco perché ci sgonfiamo.
Ci tengo a sottolineare che non sto generizzando: alcuni alimenti causano *effettivamente* fastidio organico (penso al pomodoro per una persona con gastrite, o ai fagioli per chi ha colon irritabile).
Il compito di un bravo professionista della salute è riuscire ad accompagnare la persona a individuare se ci siano vizi e distorsioni del pensiero nelle sue convinzioni, da cui deriva un comportamento alimentare scorretto perché limitante e perché accompagnato ad ansia anticipatoria (ossia, quella fastidiosa sensazione tale per cui se sono convinta che un alimento mi faccia male e so che dovrò mangiarlo per forza, il mio sistema nervoso si metterà in allerta ben prima di averlo effettivamente addentato, predisponendomi ad essere nervosa ed iper-focalizzata su qualsiasi sensazione avversa del mio corpo; mi illudo, erroneamente, che tali sensazioni siano prova della convinzione di partenza).
Selezione e assolutizzazione delle informazioni lette
Di nuovo, un bias di conferma, stavolta legato a informazioni lette e non sensazioni percepite: in modo del tutto inconscio, tendiamo a selezionare e ricordare le informazioni di modo che quelle che ci sembrano più rilevanti e credibili siano quelle che confermano le proprie convinzioni, ignorando o sminuendo quelle contraddittorie. Nel lavoro ambulatoriale, mi capita molto spesso con i pazienti con un disturbo dell’alimentazione di tipo restrittivo: ormai basta aprire Instagram per venire catapultati in una dimensione nella quale tutti dicono tutto e il contrario di tutto. Si può leggere che mangiare tanti grassi saturi aiuta la salute ormonale, dopo un secondo si può leggere un altro post in cui i grassi saturi sono demonizzati con il male supremo: una persona che di base ha un comportamento alimentare restrittivo, tenderà a fissare bene nella memoria tutto quello che è stato scritto nel secondo post, ricordandosi appena di aver letto il primo. Lo stesso farà quando in un post leggerà che la zucca è un delizioso ortaggio autunnale assai versatile in cucina, e subito dopo in un altro account la zucca verrà bandita dalla tavola perché troppo ricca di carboidrati.
Nota a margine: di questi esempi poco importa cosa è ‘giusto’ e cosa ’sbagliato’; mi interessa il processo cognitivo per cui la nostra mente tendenzialmente ricorda quello che le fa comodo.
Il fascino del “metodo nutrizionale”
Mi è capitato diverse volte: ricevere una mail da una persona interessata a una consulenza con me, nella quale mi si chiede se si possano avere dettagli circa il mio “metodo”.
È il bias dei dettagli seduttivi; cito da Wikipedia: “se un argomento è supportato da dettagli con informazioni vere e magari importanti, ma non pertinenti all’argomento, questo viene valutato più convincente”. All’atto pratico, un esempio: se io spiego di avere un metodo collaudato grazie al quale cambio l’alimentazione alle persone e aumento la loro energia e il loro benessere, riceverò decine di messaggi di interessamento. A quel punto spiegherò che il metodo si basa su uso di cibo funzionale utile a migliorare e ottimizzare il sonno notturno, così da svegliarsi pieni di energie. C’è una correlazione tra le due cose? Insomma… Sì e no: capite bene che la gente è più attirata dalla “decorazione” del mio metodo, che non da dimostrazioni di efficacia in sé e per sé.
In nutrizione, vendere un “metodo”, un “protocollo”, un “programma” aumenta l’interesse. Fare la stessa identica cosa senza chiamarla “metodo/protocollo/programma” e senza corredarla di informazioni assolutamente inutili ai fini nutrizionali, non ha lo stesso appeal. Eppure, di fatto, si suggerisce di fare le stesse identiche cose.
Il peso corporeo
Una delle *grandi* tematiche su cui il rischio di incontrare bias è aumentato esponenzialmente è il peso corporeo.
Pesare “tanto” fa male alla salute, il peso è un “fattore di rischio”, se non perdi peso in eccesso “per forza hai la pressione elevata”, eccetera eccetera.
Sviscerare ogni possibile bias che abbia a che fare con il peso corporeo è davvero difficile, perché è letteralmente intrinseco alla professione medica e sanitaria: ci è stato detto talmente tanto e talmente a lungo che grasso = fattore di rischio, ed è stato dimostrato talmente tante volte negli studi scientifici, che nemmeno ci poniamo il problema di domandarci se *effettivamente* sia così (o meglio: c’è chi se l’è chiesto… scoprendo appunto tutti i bias che inficiano il giudizio, e creano pre-giudizio).
La questione è complessa: fondamentalmente si parte da un bias di ancoraggio, tale per cui la persona grassa viene pre-giudicata non nella sua interezza, ma in quanto al suo essere grassa. Al grasso sono associati concetti negativi veicolati da decadi di diet-culture e stigma: ad esempio chi è grasso è pigro e indolente. Poco importa se la persona che abbiamo davanti ha due lauree, parla tre lingue e fa arti marziali a livello agonistico: ci verrà più facile giudicarla in quanto “grassa” (con tutti i costrutti sociali che si porta dietro) che non per la sua complessità. Di fatto è una forma di discriminazione sociale: e già qui, dovremmo magari farci due domande circa la neutralità con cui si svolge un’anamnesi clinica a una persona grassa.
Ma proviamo ad andare oltre questo bias di base: gli studi scientifici ci dicono che l’eccesso ponderale si correla ad un aumentato rischio per la salute? Sì, è indubitabile. Il fatto è: si mette mai in dubbio che tali studi possano essere stati inficiati di bias? Vi faccio due esempi estremamente esemplificativi:
1) Ci si interroga mai di come una persona sia aumentata di peso? Ossia: sta esprimendo un potenziale genetico, o nella sua vita ha avuto un continuo effetto yo-yo? Le due situazioni sono ben diverse! Sebbene la nostra società ci porti a credere che solo i corpi non-grassi siano “giusti” e “naturali”, il peso e le dimensioni corporee sono caratteristiche fisiche che molto spesso sono geneticamente determinate: su che basi possiamo dire che un peso sia “sbagliato” perché “insalutare e innaturale”? Solo perché ci si è resi conto che il peso è controllabile con la restrizione calorica, e quindi questo dà l’illusione che sia un fattore modificabile e correlato alla salute? E allora perché non esiste un’altezza “sbagliata” perché “insalutare”? Essere troppo alti è un fattore di rischio per problemi tendinei e muscolari, soprattutto in adolescenza: si è mai visto un medico rimproverare un undicenne perché è alto 1,7 m quando invece dovrebbe essere venti centimetri di meno?
Mi rendo conto che sto estremizzando e che la situazione è estremamente più complessa di così; so benissimo che il peso corporeo può essere *davvero* influenzato da abitudini alimentari insalubri e da comportamenti disfunzionali; ma iniziamo a metterci nell’ottica che un peso che si discosta dalla media non è automaticamente “sbagliato” e che un corpo magro non è automaticamente “sano”: non è una cosa che si definisce solo con un calcolo del BMI o con una bioimpedenziometria!
Oltretutto, nella maggior parte dei casi il peso definito “in eccesso” è frutto di anni e anni di weight cycling: perdo peso e abbasso i miei fattori di rischio per la salute (colesterolo, glicemia, pressione, etc); metto peso e il rischio aumenta; perso peso e il rischio diminuisce; rimetto peso e il rischio aumenta ancor più che in precedenza. Ad ogni step di perdita corrisponde un vantaggio per la salute, ad ogni step di aumento corrisponde uno svantaggio più marcato dello step di aumento precedente.
Cosa condiziona il weight cycling? Non certo la forza di volontà di mettersi a dieta! Quanto piuttosto conseguenze inevitabili dettate dalla dieta stessa (ne avevo parlato qui), pressione sociale, diet culture.
Di fatto, gli studi secondo cui l’obesità è un fattore di rischio per la salute andrebbero un pochino approfonditi: da cosa è dipesa la condizione di obesità? Per farvi capire, è un po’ come se io ora vi dicessi: tenere i bambini al freddo li espone a contrarre più facilmente virus da raffreddore e influenza. Allora si decide di tenerli ben chiusi nelle aule con il riscaldamento alto e senza ricircolo di aria (ché una finestra aperta a dicembre a scuola sembra essere più pericolosa di un coltello in mano a un duenne). Poi i bambini si ammalano perché in ambienti caldi e umidi si favorisce la proliferazione batterica. Beh, ve la siete cercata: non vi ho mica detto io di non portarli all’aria aperta…
Pensateci. Molto spesso il discorso del peso corporeo è proprio uguale: vi dico che il peso in eccesso non è salutare, non è naturale, è sbagliato. Voi vi mettete a dieta e dimagrite. Poi tornare ad aumentare di peso perché la dieta era troppo rigida/perché il vostro corpo è entrato in sofferenza e ha perso la sua omeostasi. L’aumento di peso corrisponde a un peggioramento della vostra salute: e allora di chi è la responsabilità di quel peso che, diminuendo e crescendo, è diventato problematico? SIl problema è alla base: *chi* o *che cosa* definisce che un peso non è “di salute”? Gli studi tengono conto delle differenze tra un peso che è una conseguenza del weight cycling e un peso che esprime un potenziale genetico? Gli studi pongono mai l’accento sulla differenza che c’è tra aumentare di peso mangiando “sano” e aumentare di peso a seguito di binge e abbuffate come conseguenza di una precedente restrizione? No: nella quasi totalità dei casi viene posta un’errata equivalenza alla base di tutto. Grasso = insano, a priori.
Si assolutizza, non si contestualizza, e si danno consigli assolutamente non calati in un ragionamento di conseguenze sul lungo termine.
Ma non è tutto, passiamo anche al secondo punto.
2) Le persone che secondo i professionisti sanitari “dovrebbero perdere peso” sono vittime dello stigma della grassofobia non una, ma due volte. Subiscono lo stigma derivato dal pregiudizio altrui, e loro stessi si pensano in relazione alle categorie dello stigma. In ambito medico, questo può tradursi con minore cura di sé e minori esami di approfondimento: “ non vado più dalla ginecologa, perché mi ha già detto tre volte che finché non perdo peso avrò sempre dolori mestruali; non sono ancora riuscita a dimagrire, mi dirà la stessa cosa” (e magari c’è un’endometriosi profonda non diagnosticata); “che ci vado a fare dal cardiologo? So che mi dirà che per la mia pressione alta dipende dal mio peso, prima dimagrisco e poi ci vado” (e magari anziché dal peso quell’ipertensione dipende da un problema renale…).
Di fatto, non è che la loro salute non ottimale possa dipendere anche da una cura medica non imparziale, e da una cura di sé che risente dello stigma del peso?
I bias sono involontari: molto spesso alterano la nostra capacità di giudizio critico e oggettivo senza che noi ce ne rendiamo conto. Tuttavia, esistono modi per auto-correggersi, ossia rendersi conto che il proprio pensiero è stato inficiato da un bias, e quindi deve essere rivisto. In primo luogo, è importante sapere che esistono i bias (altrimenti, l’essere umano è più indotto a fidarsi del proprio calcolo mentale, che non a metterlo in discussione: è meno dispendioso “fidarsi” del proprio pensiero, che non doverlo continuamente ripassare al setaccio). In secondo luogo, credo che sia importante possedere una buona dose di umiltà e di onestà intellettuale: a volte tendiamo a non rivedere le nostre posizioni non perché non ci siamo resi conto della loro infondatezza, quanto per orgoglio.
Tornerò a parlare di bias cognitivi in ambito di salute e alimentazione. Spero, intanto, di aver disseminato qualche lecito dubbio sulle proprie credenze a-priori!