Negli healthy-blog americani c’è un motto che si ritrova spesso: don’t drink your calories – non bere le tue calorie. Questo imperativo salutistico ha sicuramente un peso maggiore oltreoceano che non qui in Italia: qui non siamo abituati a bere caffè con zucchero e panna ad ogni ora del giorno, nei ristoranti la Coca-Cola non costa meno dell’acqua, e accompagnare il pranzo o la cena da bicchieri di latte è qualcosa che riteniamo improponibile. Tuttavia, in estate anche noi tendiamo a bere di più bibite fresche, ricche di zuccheri e di calorie: bottigliette di tè freddo o bevande gassate, succhi di frutta, granite, ghiaccioli, acqua mischiata a sciroppo di menta o di orzata. Magari pensiamo che siano dissatanti e refrigeranti, ma in realtà è l’esatto opposto!

Sfatiamo un luogo comune piuttosto diffuso: bere bibite fredde (compresi ghiaccioli e granite) non rinfresca né disseta, anzi stimola l’organismo a una maggiore sudorazione e dunque promuove un maggior rischio di disidratazione. Questo vale tanto per le bevande zuccherate come Coca-Cola, tè e succhi quanto per la semplice acqua di bottiglia. Le bevande che escono dal frigorifero hanno una temperatura di circa 3-5°C (anche inferiore nel caso dei ghiaccioli), mentre il nostro sistema digestivo è tarato sui 36-37°C: quando introduciamo liquidi a temperature così basse lo shock termico è inevitabile, soprattutto se non ci limitiamo a piccoli sorsi ma scoliamo la bibita tutto d’un fiato. Il nostro organismo compensa con una maggiore produzione di sudore per riportare in equilibrio l’omeostasi termica: per questo motivo in estate si consiglia di bere solo liquidi a temperatura ambiente.
Passiamo quindi ad analizzare il problema degli zuccheri. Nonostante l’elevato contenuto di acqua, le bevande dolci sono ben lungi dall’essere dissetanti! Al contrario promuovono la disidratazione perché iperosmolari: significa che l’alto contenuto di zuccheri richiama liquidi nel lume intestinale, liquidi che vengono sottratti alle cellule che dunque lavorano meno e lavorano peggio. Non solo: l’iperosmolarità crea uno squilibrio che porta facilmente a diarrea, altra condizione che amplifica la disidratazione.

Altro problema riguardante le bevande dolci è il fatto che apportino calorie ‘vuote’: non sono in grado di stimolare il senso di sazietà, dunque potremmo tranquillamente bere una bottiglietta da mezzo litro di tè zuccherato o Coca-Cola senza nemmeno renderci conto di aver appena introdotto più di 200 kcal e ben 50 g di zuccheri! L’equivalente di 4-5 pesche, oppure 12 albicocche, un melone piccolo, o ben un kg e mezzo di anguria! Ecco dunque spiegato il motto citato a inizio articolo: don’t drink your calories, perché non avrete la percezione che siano calorie.

A peggiorare ulteriormente la posizione antisalutistica delle bevande zuccherate è arrivato a marzo 2012 uno studio americano che ha tenuto monitorato per ben 25 anni le abitudini alimentari di quasi 43mila uomini di età compresa tra i 40 e i 75 anni. Stando ai risultati dello studio, il consumo di bevande zuccherate aumenterebbe in modo considerevole il rischio di incorrere in patologie coronariche (infarto e ictus): chi consuma una bibita al giorno (lattina da 330 ml) ha un rischio più elevato del 19%. Il rischio raddoppia al 42% per chi consuma due bibite al giorno e raggiunge ben il 60% quando i drink quotidiani diventano tre.

Al di là dei risultati matematici e statistici degli studi scientifici, quello che in molti ignorano è che anche i succhi di frutta hanno gli stessi effetti delle bevande zuccherate: non dissetano, causano squilibri glicemici, apportano calorie vuote, richiamano acqua nell’intestino (quindi promuovono disidratazione e dissenteria, soprattutto nei bambini) e se consumati regolarmente contribuiscono ad aumentare il rischio di patologie cardiache.
In molti credono che bere un succo equivalga a mangiare una porzione di frutta: in realtà non è così. Un brick di succo contiene il doppio degli zuccheri della frutta, è privo di fibra e il processo di pastorizzazione a cui è stato sottoposto ha inattivato enzimi e vitamine, e ha diminuito il tenore di sali minerali. Bisogna poi pensare che c’è succo e “succo”: a seconda della categoria commerciale (ovvero la denominazione), un brick può contenere percentuali variabili di frutta:
“Succo”: frutta al 100%
“Nettare” o “succo e polpa”: percentuale variabile tra il 25% (ribes, mango, banana e papaya) e un massimo del 50% (mele, pere, pesche, ananas e sambuco).
– Bevande “a base di frutta”: 12-24%
– Bevande “al gusto di frutta”: meno del 12%
– Arriviamo poi alle bevande “al sapore di frutta” che… non contengono frutta!
Insomma, attenzione alle etichette: se c’è scritto “sapore di…” non contiene frutta, se leggete “gusto di…” aspettatevi al massimo un 12% del frutto reclamizzato. Una truffa permessa dalla legge, in pratica.
Bisogna poi calcolare che ciascuna delle categorie che ho riportato può contenere zuccheri aggiunti o no; può contenere coloranti, conservanti e acidificanti o no; può essere prodotto a partire da frutta fresca oppure da frutta disidratata e congelata (è il cosiddetto “concentrato di frutta” che, a discapito dal nome, non è un prodotto che si distingue per una qualità superiore). E la frutta usata, di che qualità è? Qualcosa mi dice che è ben lontana dall’essere di prima scelta…
I termini legislativi sopra elencati valgono tanto per i succhi “tradizionali” quanto per quelli “da agricoltura biologica”: uno dei molti esempi che si potrebbero citare in cui il biologico sembra scimmiottare il tradizionale piuttosto che far leva sui propri punti di forza, ossia la naturalità delle materie prime.
La soluzione? Farsi una buona centrifuga di frutta, o una spremuta, o un frullato. O, meglio ancora, mangiarsi la frutta fresca intera: ancora una volta don’t drink your calories! Se consumate frutta come frullato o centrifuga non vi sazierà tanto quanto mangiare il frutto intero: al più, il frullato potrebbe gonfiarvi dal momento che ingloba aria per aumentare di volume e rendersi cremoso e soffice.

Bibliografia
L.de Koning et al. – Sweetened Beverage Consumption, Incident Coronary Heart Disease, and Biomarkers of Risk in Men, Circulation 2012; 125: 1735-1741