Avete mai sentito parlare di fetal programming?
Letteralmente, significa “programmazione fetale”; sembra un termine di intelligenza artificiale o manipolazione genetica, ma in realtà ci si riferisce semplicemente a tutto l’insieme di stimoli ambientali cui è sottoposta una donna durante la gravidanza, che sono in grado di influenzare lo stato di salute e malattia del bambino durante la sua vita futura, anche quella da adulto.

Intendiamoci, non tutti gli stimoli cui è sottoposta la mamma hanno un’influenza sul bambino, anzi: solo stimoli continui e reiterati possono lasciare un imprinting, una sorta di impronta che *potrebbe* condizionare il bambino una volta cresciuto. Essi includono nutrizione, stress, abuso di sostanze, disordini psichiatrici, insorgenza di diabete, uso di alcuni medicinali. Dal 2014 all’interno del fetal programming gli scienziati includono anche fattori fetali, e non solo materni, come ad esempio le dimensioni e il peso, la prematurità di parto, la comparsa di infarto placentale e qualsiasi problema fetale che possa portare a ipossia.

Il condizionale è d’obbligo: durante la vita extrauterina (infanzia, adolescenza, età adulta) si è esposti ad una tal varietà di fattori ed influenze, che qualsiasi impronta fetale viene spazzata via.
Cercate di pensare al fetal programming come ad una sorta di possibilità; ad esempio se la mamma durante la gravidanza si nutre in un certo modo (molta verdura, molta vitamina C, cereali integrali, materie prime fresche…), il bambino ha la possibilità di essere protetto dallo sviluppare insulino-resistenza (…se però la sua alimentazione sarà sempre ricca di zuccheri e alimenti processati, non sarà il fetal programming a salvarlo!). Altro esempio: se la mamma durante la gravidanza è sottoposta a stress psicologico reiterato e ripetuto, il bambino ha purtroppo maggiore possibilità di sviluppare comportamenti caratterizzati da stati ansiogeni (…ma se durante la sua vita si verificano tutta una serie di condizioni positive di rinforzo emotivo, la possibilità di essere ansioso naufraga).
Ecco, spero di essermi spiegata!

Uno studio molto interessante di qualche anno fa è andato ad indagare il ruolo del fetal programming nell’insorgenza di disturbi alimentari in età adolescenziale e adulta: esistono fattori alimentari o stressogeni cui la mamma è sottoposta per 9 mesi che possano in qualche modo lasciare il segno?
I ricercatori sottolineano che i DCA hanno un’eziologia complessa e multifattoriale: sono stati individuati *almeno* 30 fattori di rischio, che comprendono sia componenti ambientali sia componenti genetiche; tra di essi spiccano: la situazione familiare, le relazioni interpersonali, l’esposizione ai media, l’enfasi culturale sulla dieta e l’apparenza. Il rischio viene aumentato anche da tratti predisponenti di personalità, come ad esempio il perfezionismo e l’autosvalutazione, oltre che da disordini psichiatrici, come il disturbo ossessivo-compulsivo.
Negli anni più recenti alcuni ricercatori hanno scoperto che alcuni geni possono impattare nello sviluppo di anoressia e bulimia: si tratta di geni che influenzano il neurosviluppo, la plasticità neurale, l’omeostasi energetica e il metabolismo. Alcuni meccanismi epigenetici, tra cui la metilazione del DNA, influenzano l’espressione di questi geni.

Da diversi anni a questa parte studi di psichiatria e psicologia hanno indagato la possibilità di un fetal programming per l’insorgenza di alcuni disturbi psichiatrici, come la depressione, il disturbo bipolare e la schizofrenia; solo di recente si sono indagate le correlazioni con i disturbi dell’alimentazione:

* Uno studio del 2006 ha messo in correlazione l’esposizione materna ad anemia, diabete mellito gestazionale, pre-eclampsia, infarto placentale e problemi cardiaci neonatali con un maggior rischio di sviluppare anoressia e bulimia in età adolescenziale e adulta.
* Un altro studio, del 2010, smentisce in parte i risultati precedenti: né l’anemia materna né il diabete gestazionale possono dare un imprinting fetale per lo sviluppo successivo di DCA; tuttavia, le altre condizioni citate possono avere un effetto epigenetico predisponente, e quindi grande attenzione deve essere posta per il trattamento della pre-eclampsia e per la diagnosi precoce di problemi cardiaci neonatali.
* Altri studi, rispettivamente del 2014 e 2015, indicano che la prematurità del neonato e le difficoltà di nutrizione nelle prime settimane di vita sono due fattori di rischio per lo sviluppo di anoressia e bulimia: sebbene non siano ancora chiari i meccanismi neurali alla base di questa correlazione, una ricerca del 2015 ha indagato la questione attraverso la tecnica della neural imaging, mostrando che la spiegazione potrebbe avere a che fare con un inferiore volume della materia grigia nell’area posteriore sinistra del cervelletto e con un volume inferiore bilaterale della materia bianca nella circonvoluzione fusiforme. Il cervelletto contribuisce a modulare pattern relativi alla nutrizione e all’emotività, mentre la circonvoluzione fusiforme ha un ruolo in specifici comportamenti tipici dei DCA, come ad esempio i controlli ossessivi delle corpo (specchio, bilancia, vestiti).

La maggior parte degli studi condotti in relazione al ruolo del fetal programming sull’insorgenza di DCA ha indagato approfonditamente le correlazioni esistenti con lo stato di nutrizione e di stress cui è sottoposta la mamma durante la gravidanza.
Quali sono stati i risultati?

Studi condotti tra il 2011 e il 2013 hanno preso in considerazione la severa restrizione calorica cui sono state sottoposte le donne incinte durante la II Guerra Mondiale: gli effetti a lungo termine dell’esposizione fetale a grave malnutrizione sono legati ad un aumentato rischio di sviluppare disordini psichiatrici, tra cui schizofrenia (la motivazione sembra essere legata prioritariamente a difetti del tubo neurale). In relazione al comportamento alimentare e alla biochimica della nutrizione, sembra inoltre che la grave malnutrizione materna sia legata anche ad una disregolazione dei centri di fame e sazietà nella prole: in breve, si fa più fatica a sentire la sazietà, si cerca maggior appagamento con il cibo, si ha più probabilità di avere episodi di abbuffate e comportamento disfunzionale con il cibo. Che questo possa essere correlato a un maggior rischio di DCA vero e proprio non è attualmente dimostrato, ma è altamente probabile.

Un altro studio del 2015 ha analizzato le conseguenze della malnutrizione legata non tanto ad eventi storici che hanno portato a carestia, quanto piuttosto al mantenimento di un disturbo dell’alimentazione materno durante la gravidanza. In questo studio si prende in considerazione sia la malnutrizione calorica (restrizione volontaria dell’assunzione di cibo) sia la malnutrizione in termini di micronutrienti (alimentazione materna normo- o ipercalorica, ma con pochi cibi freschi e con un netto eccesso di dolci, carboidrati, junk-food e cibo processato): in entrambi i casi i figli hanno maggior possibilità di sviluppare DCA in adolescenza. È importante sottolineare che questo studio ha isolato il fattore “DCA materno durante la gravidanza”: come ben si sa, i genitori con disturbi del comportamento alimentare possono influenzare il rapporto che i figli avranno con il cibo attraverso il loro reiterato esempio (a tavola, al supermercato, nei commenti… È abbastanza intuibile: se un genitore soffre di anoressia o bulimia e non intraprende un percorso per raggiungere un equilibrio che tuteli anche i figli, questi ultimi hanno elevatissima possibilità di venirne travolti). Ecco, lo studio citato in realtà ha isolato il solo fattore di rischio del disturbo in gravidanza: l’aumentato rischio dei figli è in correlazione a condizionamenti che avvengono durante la vita intrauterina e che hanno a che fare con il sistema di regolazione emotiva, l’appetito, alcuni parametri metabolici, la specifica organogenesi e l’ossigenazione tissutale. Questi condizionamenti possono poi venir peggiorati e amplificati dal DCA materno durante l’infanzia del bambino.

Alcuni studi condotti nel 2016 sono interessanti per le conclusioni a riguardo dei fattori di stress materni: se lo stress psicologico ed emotivo ha a che vedere con il cibo e con l’immagine corporea, i figli hanno un aumentato rischio di DCA. Se invece lo stress ha a che vedere con altre cause (tra gli altri, sono stati indagate le situazioni di lutto, trauma e mobbing lavorativo), la prole non avrà alcuna influenza nello sviluppo del DCA. Gli studiosi indicano che in entrambi i casi i pattern ormonali e metabolici che si attivano in mamma e bambino sono i medesimi: ma solo nel primo caso portano ad un imprinting per DCA; la spiegazione molto probabilmente risiede nel fatto che una mamma in gravidanza che ha un brutto rapporto con il proprio corpo (lo vede ingrassato, informe, irrecuperabile) attiverà dei comportamenti alimentari di restrizione, e quindi in definitiva e di nuovo la restrizione calorica e non lo stress di per sé ad essere correlato al rischio di DCA nei figli.

La review degli studi citati (ve la metto in bibliografia) porta ad una riflessione conclusiva molto importante: i dati a nostra disposizione non devono essere usati per fare terrorismo, ritorsione psicologica o per iper-responsabilizzare le mamme (“se non risolvi il tuo disturbo alimentare lo trasmetti anche a lui/lei!”, et altre amenità che oggettivamente ho sentito pronunciare). Piuttosto, devono essere dati da usare in ambito sanitario per:
– Prevenzione
– Cura
– Personalizzazione dei percorsi di gravidanza
In altre parole, bisognerebbe essere in grado di cogliere il disagio psicologico materno (…e questo anche al di là di quello che è il disturbo dell’alimentazione), e di creare un percorso di supporto e cura che permetta alla mamma di stare meglio, e al bambino di non avere un maggiore rischio di esposizione durante la vita fetale.

Bibliografia
C Jones, B Pearce, I Barrera, A Mummert – Fetal programming and eating disorder risk – Journal of theoretical biology 428 (2017) 26-33