Su questo sito ho affrontato gli argomenti più disparati: alimentazione sana, diete terapeutiche, alimentazione per squilibri ormonali, qualità del cibo, disturbo dell’alimentazione; diverse volte ho parlato anche di dimagrimento, ma non ho mai affrontato il discorso della vera e propria obesità.

L’obesità è una malattia. 
E già questa definizione potrebbe sembrare a molti discriminatoria, esagerata, allarmistica. 
Purtroppo così non è: quando si portano con sé alcuni chili di troppo tutto sommato si vive lo stesso bene, ma quando ci si riferisce all’eccesso di peso patologico il discorso cambia.
La definizione di obesità secondo l’OMS è fatta sulla base di un valore definito IMC o BMI (indice di massa corporea o body mass index), così calcolato e classificato:

Il calcolo del BMI presenta numerose limitazioni, dovute principalmente al fatto che non tiene conto della composizione corporea (il peso elevato è dovuto ad una massa muscolare importante, o all’accumulo di grasso?). Tuttavia, è un primo, importante discrimine: con l’aiuto di personale medico qualificato e strumentazioni all’avanguardia è possibile fare indagini più accurate circa la ripartizione tra acqua, grasso e muscolo che il corpo presenta concretamente, e di conseguenza fare deduzioni circa il rischio che l’eccesso di grasso comporta per la salute. Perché sì: il grasso non è “brutto”, ma è “pericoloso”.

L’apice del benessere: solo questo?
L’uomo, da sempre, si è trovato a dover combattere con la scarsità di cibo, non con la sua abbondanza; il ricorrere di periodi di carestia è stato dovuto a epidemie della popolazione, decimazione delle coltivazioni a causa di malattie delle piante o eventi atmosferici avversi.
Fino al XIX secolo era solo l’aristrocrazia a poter beneficiare di cibo abbondante e, grosso modo, sempre disponibile; questo non significa che il sovrappeso fosse esclusivo delle classi agiate: sebbene nella popolazione media ci fosse una prevalenza di malnutrizione dovuta agli stenti, non dobbiamo dimenticare che anche il “cibo povero” può essere particolarmente calorico, come ad esempio il grasso di derivazione animale come strutto e sugna, frutta secca, trippe e interiora; anche i poveri, quindi, potevano avere una corporatura affatto esile.


Quello che balza all’occhio nella Storia dell’Alimentazione sono tre fattori:
– L’alternanza, durante le stagioni e durante l’anno solare, della presenza di cibo altamente energetico: scarsità in inverno e inizio primavera, abbondanza in altri periodi;
– L’assenza quasi totale dell’obesità vera e propria;
– Un dispendio calorico mediamentamente molto più elevato rispetto a quello della popolazione attuale, dovuto a professioni attive e spesso addirittura massacranti.

E’ stato solo nell’ultimo secolo che l’abbondanza di derrate alimentari, progresso della Medicina e tecnologie all’avanguardia ci hanno permesso di avere a disposizione cibo in qualsiasi momento del giorno, senza rischio di rimanere senza. Le generazioni a partire dai nostri nonni (o genitori) hanno la possibilità non solo di fare pasti regolari e abbondanti, ma anche di poter avere numerosi spuntini durante l’arco della giornata. Una condizione impensabile fino a cent’anni fa.

Fatta questa considerazione, passiamo a farne un’altra. 
In linea teorica, l’uomo non dovrebbe differire dall’animale nella capacità di autoregolare l’assunzione di cibo: come tutti i mammiferi dovremmo essere in grado di mangiare quel tanto che ci basta per sopperire ai nostri fabbisogni quotidiani, né più né meno. Dovremmo quindi assistere ad un maggior consumo di cibo con l’aumentata attività fisica (e non quando siamo annoiati davanti alla tv), dovremmo sentire l’istinto naturale al digiuno quando stiamo male e dovremmo percepire appetito solo quando effettivamente sono diverse ore che non ci approviggioniamo di cibo.
Ovviamente, questo è uno scenario idilliaco e utopistico, che non può inserirsi in alcun modo nell’indole dell’uomo nel suo complesso. L’assunzione di cibo dipende infatti da diversi altri fattori: fisici (ad esempio l’appetabilità di ciò che mangiamo), emotivi (ad esempio stati di ansia), famigliari (come l’obbligo imposto a innocenti bambini di non alzarsi da tavola finché il piatto non è pulito) e sociali (cene aziendali, brunch di lavoro, sabato sera con pizza&film da amici…).



Individuare le cause che portano all’obesità è abbastanza semplice; capire invece come i vari fattori si influenzino l’un l’altro è estremamente complesso, ed è tra i campi di ricerca maggiormente prolifici negli ultimi trent’anni della Scienza dell’Alimentazione e dell’Endocrinologia (oltre che della Psicologia).
Vediamo di fare un mero elenco delle possibili cause; preparatevi perché sono tante:
Abbondanza di cibo perennemente presente (supermercati e bar ad ogni angolo, macchinette distributrici di snack e merendine, occasioni di piluccare al lavoro, dispensa sempre piena a casa…).
Basso costo del cibo più calorico (il classico ‘junk-food’: fritture, merendine, piatti surgelati o preconfezionati…).
– Capacità dell’industria alimentare di mettere a punto formule e algoritmi per studiare rapporti specifici tra gli ingredienti usati, tali da portare ad una vera e propria dipendenza (ad esempio il cosiddetto “bliss-point”).
Poco tempo (o incapacità) di mettersi ai fornelli: è più rapido aprire una scatoletta di tonno che non cucinare un trancio di branzino al forno; questo porta da un lato ad abusare di alimenti ricchi di additivi e dal basso potere saziante, dall’altro a scegliere quello che ci mettiamo nel piatto in virtù della soddisfazione del palato, ma senza tener conto del valore nutritivo del cibo.
– Uso del cibo come compensazione emotiva: spesso mangiamo per tenere a bada lo stress, la tristezza, la paura, l’ansia (e questo, purtroppo, sta colpendo sempre di più anche i bambini).
– Copresenza di disturbi alimentari veri e propri, come binge, bulimia, BED e iperfagia (si stima che meno del 10% dei casi di obesità siano scissi da un disturbo dell’alimentazione).
Ridotta attività fisica, intesa sia come vero e proprio sport strutturato, che come stile di vita attivo: non facciamo le scale se c’è un ascensore a disposizione, cerchiamo sempre il parcheggio più vicino all’ingresso del supermercato, chiediamo ad altri di uscire a portare la spazzatura al posto nostro (“Già che ci sei…!”), abbiamo mille robot che impastano e puliscono e ci risparmiano il lavoro. Inoltre, le nostre professioni sono sempre di più sedentarie: un tempo c’erano carpentieri, domestiche, contadini, operai; ora, sempre di più, i nostri impieghi ci costringono dietro una scrivania 6-8 ore al giorno.
Presenza di informazioni contradditorie (o, peggio, assenza di informazione) riguardo l’alimentazione: uova sì o no? Zucchero o edulcorante? Meglio il miele? Se prendo uno yogurt light ne posso mangiare due anziché uno? A volte può essere interessante, al supermercato, soffermarsi a guardare i carrelli delle persone: Coca-Cola light (o “verde”, come va di moda ora), fiocchi di latte senza grassi, biscotti frollini senza olio di palma, qualche mela, un pacchetto di arachidi tostate, marmellata senza zucchero, fette biscottate integrali e budino di soia. Un bel coacervo di alimenti senza una coerenza, e soprattutto, senza vantaggi sulla salute.

Il sommarsi e l’intersecarsi di questi fattori porta sulla strada dell’obesità, lastricata di periodi di restrizione e periodi sempre più frequenti di abbuffate, tentativi di ripresa dell’attività fisica con un fisico sempre più limitante i movimenti, piacere del cibo che si mischia al senso di inadeguatezza e di colpa. 
Dire che “l’obesità è causata dall’eccessiva disponibilità di cibo” è solo una mezza verità: dal momento che questa sovrabbondanza è disponibile a tutti noi, dovremmo essere tutti obesi; non è così proprio perché i fattori in gioco sono molti, soprattutto sul lato psicologico.

L’obesità non è “la malattia del troppo star bene”.

Una volta che l’aumento di peso si è fatto di una certa entità (svariate decine di kg) e costante nel tempo, le possibilità cui ci si può trovare di fronte sono due:
1) Aumento ulteriore e incontrollato (è quello che generalmente succede in America, patria dei grandissimi obesi, che superano i 200 kg);
2) Stabilizzazione della condizione di obesità, con forti difficoltà a dimagrire e possibilità di piccoli aumenti di peso (qualche kg) nel corso del tempo.

Il ruolo dei cambiamenti endocrini e metabolici

Molto spesso si sentono giustificazioni un po’ ambigue circa l’aumento di peso: metabolismo lento, problemi di tiroide, insulino-resistenza o altre problematiche ormonali. 
E’ importante fare un po’ di chiarezza in merito.
L’obesità definibile come “genetica”, ossia dipendente da vere e proprie mutazioni del DNA, è tipica solo ed esclusivamente di alcune malattie, come ad esempio la sindrome di Prader-Willi, di Bardet-Biedl o di Cohen.
In tutti gli altri casi di eccesso ponderale va ricordato che la genesi è sempre multifattoriale, ossia non può essere dipendente da un singolo fattore: la genetica incide non più del 25%, tutto il resto è determinato da condizionamenti ambientali e sociali e da abitudini di vita (per altro, poco fa ho messo in evidenza le abitudini alimentari, sportive e l’atteggiamento emotivo, ma non dimentichiamo che recenti studi puntano il dito anche contro la qualità del sonno e l’assunzione di certi farmaci, come gli antibiotici).

Avere una sindrome che coinvolge il metabolismo, come può essere ad esempio uno squilibrio ormonale e/o tiroideo, oppure avere famigliarità per sovrappeso (“in famiglia siamo tutti grossi”) può essere un fattore mai da sottovalutare, ma non è una condanna. Allo stesso modo, è futile cercare *la* causa dell’eccesso di peso continuando a fare test di intolleranze, visite endocrinologiche o gastroenteriche: sono dati utili, ma non conclusivi; bisogna avere l’onestà di mettersi completamente in gioco, riconoscendo che i fattori causanti sono sia fisiologici sia psicologici. Finché non si è disposti a prendere in mano le cause emotive e comportamentali dell’obesità, nessun farmaco e nessuna cura potrà davvero aiutare.
Attenzione! Non sto affatto dicendo che l’obesità dipenda dalla propria forza di volontà: possiamo forse dire che un bambino obeso abbia “colpa” della propria condizione? Chi si trovi a lottare con il demone della bulimia o del binge, magari come risposta ad un abuso o un sopruso subìto o perché cresciuto in una famiglia altamente disfunzionale, ha “colpa” di aver accumulato 20 kg in un anno? Assolutamente no. Quello che sto sottolineando è proprio la complessità eziopatologica dell’obesità: è una malattia che dipende da molte cause, ed è proprio per questo che è così difficile uscirne in modo definitivo.
Se fosse solo una questione di eccesso di cibo, “basterebbe mettersi a dieta”.
Se fosse solo un cattivo rapporto con il cibo o con sé stessi, “basterebbe la psicoterapia”.
Se fosse solo un problema ormonale o metabolico, “basterebbe la medicina giusta”.
Bisogna essere in grado di individuare tutti (o almeno la maggior parte) dei fattori causativi, e agire contemporaneamente su ciascuno di essi.

Prima di entrare nel merito delle terapie, vorrei spendere due parole in più riguardo le complicazioni endocrine e metaboliche dell’obesità. 
Molto spesso le complicanze che vado ad elencare non sono cause scatenanti, bensì sono cause perpetuanti: vale a dire che di per sé non portano all’aumento di peso, ma contribuiscono a rendere difficile la regressione dell’obesità. Tali fattori, per altro, sono determinati nella quasi totalità dei casi dall’eccesso di peso stesso: l’aumento ponderale causerebbe quindi delle modifiche metaboliche che sono la causa della concreta difficoltà a perderlo successivamente. 
Un cane che si morde la coda, in pratica: a maggior ragione la terapia dovrà essere necessariamente multifattoriale, ma ne parleremo in seguito.

Le cause endocrino-metaboliche a cui mi sto riferendo sono le seguenti:
Disregolazione delle oressine, ossia di ormoni che regolano fame e sazietà. Maggiore è l’aumento del peso corporeo, maggiore è il livello di questa disregolazione: sarebbe intuitivo pensare che più una persona mangia, più si sazia, ed effettivamente questo è quello che accade nel breve termine; tuttavia, in un contesto di obesità diventa molto difficile non avvertire il senso dell’appetito: non sarà mai una fame atavica simile a quella di cui si soffre durante il digiuno protratto, piuttosto un vago languore che porta ad un continuo piluccamento. Di rilievo è notare che le oressine coinvolgono anche i ritmi sonno-veglia, anch’essi sregolati in casi di obesità (il sonno è meno riposante, ma la sonnolenza più presente).
Disregolazione della leptina, altro ormone estremamente interessante legato all’obesità; la leptina ha (o per meglio dire avrebbe) il compito di regolare l’assunzione di cibo e il dispendio energetico. La sua produzione è (dovrebbe essere) inversamente proporzionale alla percentuale di grasso corporeo: quando la percentuale di grasso aumenta, si inibisce la produzione di leptina, e di conseguenza aumenta il dispendio energetico mentre aumenta l’appetito (e, teoricamente, l’assunzione di cibo): il corpo si predispone a perdere il grasso accumulato. Quando invece la percentuale di grasso diminuisce la leptina aumenta, quindi anche l’appetito aumenta mentre il dispendio energetico diminuisce: il corpo mira a riconquistare il peso perso (questa è una delle tante cause per cui le diete spesso falliscono). 
Se tutto fosse lineare e matematico, l’obesità non dovrebbe esistere: la leptina, insieme ad altri ormoni, dovrebbe arrestare il progressivo aumento di peso. Invece si è visto che in caso di sovrappeso i livelli di leptina aumentano anziché diminuire: l’ormone inizia ad assumere un comportamento patologico, operandosi ad immagazzinare sempre più calorie e grassi man mano che il peso della persona aumenta.
Innescarsi di insulino-resistenza, con maggiore ossidazione degli zuccheri, quindi difficoltà a bruciare i grassi che si sono accumulati nel tessuto adiposo. Sempre a causa dell’insulino-resistenza non è affatto infrequente trovarsi in una condizione per la quale il corpo attinge più facilmente alle proteine che non ai grassi: di solito il corpo usa le proteine come fonte energetica solo in stato di profonda denutrizione o digiuno protratto, eppure è stato evidenziato che questo accada anche in condizioni di forte sovrappeso. Per questo motivo è molto frequente trovare persone obese che, all’analisi della composizione corporea, risultano avere la massa muscolare a quella in età prepubere, ossia pressoché irrilevante: con il progredire della patologia il metabolismo ha pian piano mangiato tutti i muscoli, creando non pochi problemi. In primo luogo, rimarcando il circolo vizioso dell’accumulo di grasso; ma non va dimenticato che una buona massa muscolare è fondamentale anche a garantire un sistema immunitario robusto e reattivo: in caso di obesità ci si ammala più facilmente, e si recupera in tempi molto maggiori.
Acutizzazione dei meccanismi di ricompensa legati all’assunzione di cibo. Sappiamo che la dipendenza da cibo è data anche (anche, non solo) dall’attivazione di aree cerebrali relative alla ricompensa e alla gratificazione: sul breve termine il cibo innesca sensazioni positive e rassicuranti, del tutto involontarie, che pongono le basi della dipendenza. Sono a maggiore rischio le persone che godono di poche gratificazioni esterne, sociali, lavorative e personali: il cibo diventa l’unico vero amico, ma qui entriamo già troppo nel campo della Psicologia. Ad ogni modo, è stato visto come, a parità di altri fattori, l’obesità determini via via una sempre maggior dipendenza, poiché il cibo diventa in grado di scatenare una sempre maggior gratificazione. La disassuefazione è dolorosa non solo come privazione fisica da un eccesso calorico cui si era avvezzi, ma anche come assenza mentale di un importante mezzo di gratificazione.

Rallentamento metabolico. L’aumento di peso corporeo induce l’intero nostro metabolismo ad una condizione quasi paragonabile a quella del letargo di certi mammiferi: le funzioni biologiche e vitali iniziano a funzionare in una modalità di stand-by, ossia non si fermano (né si fermeranno) ma continuano implicando il minimo dispendio energetico possibile. Di conseguenza il metabolismo basale rallenta. Una persona normopeso che svolga un’attività fisica blanda ha bisogno di circa 1200-1400 kcal al giorno per la mera sussistenza (ossia, anche se stesse perfettamente ferma 24 ore su 24, avrebbe bisogno di un intake di 1200-1400 kcal per evitare il deperimento fisico): di norma ci si aspetterebbe che l’aumentare del peso aumenti anche il metabolismo basale (c’è più materia organica da nutrire), e questo è quello che accade quando aumenta la massa muscolare, non quella adiposa. In caso di obesità la spesa energetica per il sostentamento quotidiano può scendere fino a 800-1000 kcal al giorno: un bel problema, perché la dieta dimagrante dovrebbe essere di sole 1200-1300 kcal totali per permettere un congruo dimagrimento. Con un tale apporto energetico diventa molto difficile non patire la fame: ecco perché, in caso di obesità, la dieta da sola è inefficace.

Queste sono solo alcune delle complicanze endocrine e metaboliche che possono rendere difficile perdere peso in caso di obesità. Ne esistono delle altre, alcune che hanno poco a che fare con il peso in sé ma che sono parimenti avvilenti (calo della libido, ridotta fertilità, ridotta motilità intestinale, apnee notturne…), altre che non sono ancora state sufficientemente indagate dalla Scienza.
Nel prossimo articolo illustrerò le varie terapie, mediche e non, che, quando usate in sinergia, rendono possibile il processo di dimagrimento in modo efficace sul lungo termine. 
L’efficacia nel tempo diventa il vero e proprio parametro di cui tener conto: sul breve termine esistono innumerevoli strategie in grado di far dimagrire la persona, come ad esempio una dieta con sondino naso-gastrico, la chirurgia bariatrica, lo sport quotidiano o addirittura l’ipnosi. Nessuna di esse, da sola, è risolutiva: ecco perché è fondamentale informare il paziente che il percorso da intraprendere si diramerà su più vie, che si intersecano le une con le altre.

Bibliografia

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