Un intervento delicato, profondo quanto la consapevolezza di una donna in dolce attesa.
Più di anno fa avevo tenuto uno dei miei abituali incontri serali rivolti alle donne: prima di rimanere incinta ne organizzavo cinque o sei l’anno, in forma gratuita, per sensibilizzare riguardo il sottile equilibrio esistente nel mondo femminile tra alimentazione, armonia ormonale e percezione del proprio corpo in relazione ad un’immagine riflessa allo specchio spesso distorta e deformata.
Pochi giorni dopo sono stata contattata da una psicologa che aveva assistito alla presentazione, e che mi chiedeva un incontro per parlare di un piccolo progetto; ci siamo trovate in una sera di inizio estate davanti a una tazza di tè, e mi ha parlato della sua idea: aveva alcune pazienti (cinque) in cura per un disturbo dell’alimentazione. Tutte avevano scoperto di recente di essere in gravidanza. Gioie e preoccupazioni all’orizzonte: l’immensità di scoprirsi mamma, dominata, loro malgrado, dal disturbo, che pone dubbi e paure. L’idea di questa psicologa era di organizzare degli incontri con la mia collaborazione, per aiutare le future mamme nel complicato cammino che le avrebbe coinvolte nei successivi nove mesi. Sarebbero state un nido che accoglie due anime: una che si stava formando, e una – la loro, ferita da anni di lotte con il cibo – che si stava rinnovando.
Ero titubante se accettare o meno, preoccupata di non essere all’altezza di un compito tanto delicato, ma alla fine sono stata convinta, e abbiamo cominciato gli incontri.
Ho rivisto quelle cinque splendide donne pochi giorni fa per l’ultima volta: loro stringevano tra le braccia le loro creature dagli occhi curiosi, io con il mio pancione incipiente. Sì, perché dopo un paio di mesi dall’inizio del percorso insieme ho scoperto io stessa di essere in dolcissima attesa: ad ogni nostro nuovo appuntamento avevo una consapevolezza in più e, loro mi hanno detto, questo è stato quasi un valore aggiunto. “Ci hai materialmente dato la percezione dell’incanto di un corpo femminile che accoglie la maternità, e ci hai tenuto radicate alla realtà con la tua testimonianza di un cambiamento libero da ogni mostro mentale”, mi ha detto una di loro. Sarà la propensione alla lacrima facile di questo periodo o l’affetto che ora provo per loro, ma mi sono sinceramente commossa.
Questo intervento è una loro richiesta, in realtà. Mi hanno chiesto di parlare a voi come ho parlato a loro: “Perché di donne che accolgono un figlio nella devastazione di un disturbo alimentare ce ne sono, e bisogna superare l’omertà”. Non tutte sono ‘mamme dal primo minuto’, e queste insicurezze verso il proprio corpo che cambia devono essere affrontate per permettere una gravidanza serena a ciascuna donna, anche se non soffre in un disturbo dell’alimentazione conclamato.
Così, eccomi a scrivere, sperando ancora una volta di non risultare inadeguata con le mie parole, e di saper toccare le corde giuste.
Ovviamente questo intervento deve molto anche a E., la psicologa che ha seguito il gruppo e che leggerà in anteprima l’articolo prima che io lo pubblichi.
Prima di cominciare, se avete piacere, in questo articolo avevo già parlato della ricerca di una gravidanza quando si soffre di un disturbo dell’alimentazione.
Ogni donna affronta in modo diverso l’esito positivo di un test di gravidanza; per una donna che soffre di un DCA quello è il primo vero ostacolo da affrontare: misto alla gioia e all’euforia c’è un cupo senso di inquietudine. Il proprio corpo non è più solo di sé stesse: ogni decisione riguardo la scelta del cibo dovrà essere presa lucidamente, ricordando che tanto le restrizioni quanto gli eccessi si ripercuoteranno sulla nuova vita che si sta formando. Facile, parlare di “dieta varia ed equilibrata”! Quando si fa fatica a capire cosa sia il meglio per sé, quanto può essere complicato mettere sulla bilancia anche il benessere di un piccolino che dipende interamente dalle nostre decisioni, e la cui salute si specchia quasi completamente nella nostra? E se a questa montagna apparentemente insormontabile si aggiungono poi le difficoltà tipiche della gravidanza (nausea, vomito, inappetenza o voracità), come se ne esce senza sensi colpa?
La prima difficoltà che le donne partecipanti agli incontri si sono trovate ad affrontare, ben prima del cambiamento delle forme corporee, è stata in relazione alla scelta degli alimenti di cui nutrirsi.
La teoria, credetemi, la conoscevano benissimo: frutta e verdura, senza trascurare cereali (integrali), proteine (nobili) e grassi (sani). Spuntini un paio di volte al giorno, idratazione adeguata, attività fisica blanda ma costante. Insomma, le Linee Guida le conoscevano benissimo e, al punto della terapia di guarigione cui erano arrivate (tutte erano in cura da almeno un anno), erano più che pronte ad applicare quello che io avrei potuto suggerire loro.
Avevano già una lunga lista di domande da pormi: quale è l’aumento calorico giornaliero consigliato? Di quanto dovevano ingrassare, e con quale trend di progressione? Potevano preparare biscottini fatti in casa? Era meglio mangiare carboidrati anche la sera? Alcune di loro partivano da un leggero sottopeso: sarebbe stato un problema per il piccolo?
Tutte queste domande si sono rivelate essere completamente futili al nostro primo incontro. Le cinque donne erano tra la quinta e la nona settimana di gravidanza e, chi più chi meno, stavano accusando gli effetti collaterali dell’ondata ormonale di progesterone e beta-HCG, gli ormoni della gravidanza. Le loro domande, piene di paura e timore, sono state ben altre rispetto a quelle che si erano accuratamente appuntate: “è normale che non abbia voglia di pesce e carne?”, “Se penso alla verdura mi vien da vomitare, come faccio a saziarmi?”, “Ho solo voglia di pane tostato e patate, ingrasserò?”, “Il bambino è a rischio di carenze alimentari?”, “Sto vomitando tanto, ho paura che non sia la gravidanza ma il DCA che torna”.
Le paure sono ampiamente comprensibili: queste donne stavano lavorando per riappropriarsi di una reale percezione di fame e sazietà, non distorta dal disturbo, e stavano pian piano tornando a prendere confidenza con le regole di una corretta e sana alimentazione, quand’ecco che sopraggiunge una tempesta ormonale che confonde nuovamente le carte in tavola. Devo ammettere che, fino a quando non ci sono passata anche io in prima persona, non ho compreso fino in fondo il loro disagio: i primi tre mesi di gravidanza ribaltano davvero i sensi e le preferenze di una donna!
La prima sera abbiamo quindi lavorato ad inquadrare le conseguenze dettate dalle prime fasi della gravidanza, quando il corpo è impegnato nella formazione della placenta (evento che di per sé prosciuga più energie della crescita fetale vera e propria). Le future mamme hanno imparato che è normale avvertire il rifiuto della fibra (verdura, frutta e legumi), che è normale avvertire la digestione appesantita (quindi è difficile provvedere all’introito definito come ‘adeguato’ di proteine), che è normale sentire la necessità di “asciugare” lo stomaco con fette biscottate, pane tostato, patate e riso bollito. E’ normale vivere con un costante senso di nausea, è normale -entro certi limiti- avere l’urto al vomito (soprattutto quando ci si forza a mangiare qualcosa verso cui il corpo dà chiari segni di “no no no!”), ed è normale avere un appetito molto fluttuante, apparentemente non dipendente da quello che si fa durante il giorno.
L’essere state tranquillizzate circa la normalità di quei sintomi è stato fondamentale per il loro percorso: sentire di rientrare in una normalità che non ha nulla a che fare con il disturbo dell’alimentazione ha permesso loro di farsi forza, di non avere sensi di colpa nei confronti di sé stesse o del nascituro.
Ovviamente, di pari passo al conforto di trovarsi nella perfetta “normalità da gravidanza”, è stato importante dare indicazioni mirate fase per fase: in gravidanza, ogni trimestre è un universo a sé. L’educazione alimentare per affrontare i nove mesi della dolce attesa è fondamentale per ogni donna, poiché la salute del piccolo dipende in larga misura dalla salute della mamma; a maggior ragione queste nozioni devono essere trasmesse a chi ha sempre avuto un rapporto conflittuale con sé stessa e con il cibo, e fatica a capire cosa, quanto e quando sia corretto cucinare e mangiare. Una buona parte del nostro percorso insieme, quindi, è stata focalizzata sul trasmettere questi insegnamenti che avrei dato a qualsiasi altra donna in dolce attesa, con indicazioni un po’ più personalizzate sulla base dei loro sintomi: chi soffriva più di nausea, chi aveva una gran fame la sera, chi notava rifiuto totale verso alcune categorie di cibo.
Come per tante altre donne, il primo trimestre è stato un alternarsi di magia e paure, energie e malesseri. Alcuni problemi, come la ricorrente stitichezza e il vomito, le hanno letteralmente messe con le spalle al muro per via dei loro trascorsi con il cibo: la maggior parte di loro ha una scarsa tolleranza verso i problemi di intestino e stomaco, ma con l’aiuto costante della psicologa sono riuscite a superare i momenti peggiori.
La presenza della psicologa è stata importante per loro (e, a posteriori, per me) anche per vivere fin da subito la gravidanza come un percorso a due: almeno per le prime 20 settimane circa, disagi fisici a parte, è difficile rendersi veramente conto che il proprio ventre sta accogliendo una nuova vita: il piccolo, pur in costante crescita, non si fa sentire, e i malesseri danno segnali più simili a quelli di un’influenza intestinale che non della meraviglia di una gravidanza. L’aiuto e le parole della psicologa sono invece servite a capire i bisogni del bambino, che si sovrappongono e a volte sono in contrasto con quelli della mamma: ascoltare i suoi insegnamenti è stato magico anche per me, e mi ha resa consapevole fin dalla prima settimana di gravidanza che il mio corpo non era più solo mio.
Una donna in gravidanza crea un nido nella propria pancia: tutto quello che farà durante i novi mesi non dovrà essere prova di “essere forte nonostante la gravidanza”, non dovrà mantenere gli stessi ritmi di lavoro, di vita, di tolleranza emotiva, di sport o di inflessibilità verso sé stessa, perché dovrà assecondare e allinearsi ai bisogni del proprio bambino. E il piccolo, nel suo modo muto e non percettibile al mondo esterno, comincerà a darle segnali dei suoi bisogni, creando una simbiosi unica ed irripetibile.
L’idea che il proprio corpo sia “ospitante” è stato un fulcro per le donne che hanno partecipato al corso di accompagnamento alla nascita; fino ad allora il proprio corpo era amico o nemico, magro o grasso, da punire o da premiare. I propri istinti alimentari erano vincolati alla percezione e all’esercizio della propria forza di volontà. Con la gravidanza, invece, l’incontro-scontro con la propria fisicità si eleva: il corpo è da nutrire per nutrire il figlio che accoglie; un intestino rallentato non è da forzare con lassativi; il vomito è reazione ormonale e non stimolo autoindotto. “Per la prima volta ho amato incondizionatamente il mio corpo, il mio lato fisico” ha scritto una delle partecipanti; “La gravidanza non mi ha forse permesso di fare pace con me stessa, ma con il mio corpo sì, e sarò sempre grata a mia figlia per avermi fatto quest’immenso dono”.
Con il passare dei mesi, le future mamme si sono trovate a fare i conti con il lavoro più grande del loro percorso: affrontare i cambiamenti estetici del corpo.
Nel primo trimestre una gravidanza fisiologica prevede un aumento minimo di peso: spesso anche solo 1 o 2 kg, a meno di non partire da una condizione di sottopeso; le donne che mettono tanto peso nei primi tre mesi sono da considerarsi a rischio di diabete gravidico, gestosi e macrosomia fetale: se è vero che “bisogna mangiare per due”, non si deve mai trascurare che la seconda persona è un esserino minuscolo, soprattutto nel primo trimestre, quando raggiunge al massimo le dimensioni di un avocado!
Dal terzo-quarto mese, invece, il bimbo comincia a farsi spazio nella pancia della mamma, iniziando a farsi notare in quanto a dimensioni; tra il terzo e il sesto mese, tuttavia, una persona esterna potrebbe scambiare quel ventre materno per… un pancino pieno di cibo e con residui di gonfiore! La mamma stessa, guardandosi di profilo allo specchio, si chiede “è il piccolo o tutta la verdura di ieri sera?!”, ma in genere l’interrogativo è posto con un sereno sorriso sulle labbra.
Una mamma con un disturbo dell’alimentazione, invece, fa fatica a rendere un unicum l’immagine di sé allo specchio e la crescita del bambino; anziché vedersi materna e femminile, si trova ingrassata e sformata. L’addome sporgente viene mascherato con vestiti larghi, nel tentativo di non attirare su di sé l’attenzione delle persone; solo successivamente, quando la pancia ha in tutto e per tutto raggiunto le dimensione innegabili della gravidanza, si riesce ad accettare con più serenità l’aumento di taglia e di peso, sebbene il rapporto con la bilancia e con lo specchio continui ad essere conflittuale.
La psicologa che ha seguito la maternità delle donne del gruppo è stata bravissima a creare diversi tipi di attività che permettessero un contatto con il proprio corpo in trasformazione: dal body-painting a una seduta fotografica di gruppo, dalla creazione di scrub casalinghi da mettere sulla pelle alla ginnastica dolce con uso di elastici e fitball. Sono stati momenti toccanti, dolci e divertenti, che consiglierei a tutte le donne che aspettando un bimbo: sentire il proprio corpo cambiare, mettendosi le mani addosso, osservando la meraviglia di una crescita interiore.
Da parte mia, io ho cercato di spiegare quelle che sono le trasformazioni fisiche della gravidanza: il rilascio di ormoni che rilassano i muscoli e li fanno apparire meno tonici (sostanze che sono fondamentali a permettere l’elasticità di un utero che aumenta le proprie dimensioni di 500 volte durante i 9 mesi!); il gonfiore a mani e piedi, soprattutto nei mesi estivi (e i benefici dell’automassaggio); il cambiamento della curvatura dorsale e delle anche, che ci rende ancora di più “tutta pancia”. Ma soprattutto, l’aumento di peso che, inaspettatamente, è tutt’altro che lineare: ci possono essere settimane in cui il peso rimane invariato e poi, da un giorno all’altro, ecco mezzo chilo in più! Visto che ha interessato una delle partecipanti, ho anche parlato approfonditamente dell’accumulo di liquidi che può causare un aumento di peso complessivo superiore ai 12-15 kg raccomandati per chi parte dal sottopeso (come la ragazza in questione): quest’accumulo non è in alcun modo dipendente né dall’introito calorico né dall’uso di sale: dipende dalla predisposizione di ciascuna donna, e risponde comunque a una necessità del feto. Pur se da tenere sotto controllo, poiché potrebbe essere fattore di rischio per gestosi gravidica, tale aumento non è da confondere con quello causato da un’iperalimentazione della futura mamma: in quest’ultimo caso il rischio, sia per il bimbo che per la mamma, è ben maggiore.
Di pari passo alla descrizione delle trasformazioni fisiche, alle donne ho anche parlato dell’aumentato fabbisogno calorico, facendo loro capire *quanto* è corretto aumentare le porzioni e soprattutto *di che cosa* aumentarle; per loro è stato di grande aiuto avere una guida nelle scelte, “altrimenti mi sarei ridotta a mangiare come ho sempre mangiato durante i pasti, salvo poi incrementare le calorie quotidiane con spuntini di biscotti, cioccolato e cene libere a base di pizza, ossia tutto ciò che mi sono sempre negata e che mi sarei giustificata con la gravidanza”, ha ammesso una di loro. Effettivamente, un rischio dei nove mesi di dolce attesa è quello di concedersi “troppo”, cullate dall’idea che tanto bisogna ingrassare comunque, e che al dimagrimento ci si penserà più in là; questo atteggiamento è sbagliato, poiché dalla qualità delle calorie introdotte dipende lo sviluppo intrauterino del bimbo, ma è comune a tante donne. Lo è ancora di più per coloro le quali abbiano un trascorso di bulimia, i cui residui si traducono in una sostanziale difficoltà a comprendere cosa e quanto sia “troppo”.
L’ultimo incontro è stato dedicato ad un problema che le mamme stesse hanno sollevato: la paura di far trasparire la conflittualità con il cibo al bambino una volta nato.
Ci sono passate in prima persona, loro come tanti altri che soffrono di DCA: una delle cause precipitanti il disturbo può proprio essere l’assorbimento di un clima dietetico-alimentare malsano che si percepisce in famiglia. Può essere il contesto di una famiglia per la quale il cibo rappresenta una compensazione emotiva (“non piangere, ti do un biscotto”), può essere la presenza di una mamma sempre a stecchetto con la dieta, può essere l’eccesso di ipersalutismo, o possono essere le contraddizioni genitoriali (“non ti compro le patatine fritte; però quando piangi e io sono esausto, cedo ai tuoi capricci”). I bambini sono come antenne: captano le insicurezze parentali, e spesso le interiorizzano, rielaborandole.
La preoccupazione di queste mamme era quindi giustificata e fondata, e non era l’unica; la loro paura era anche verso sé stesse: le mamme, classicamente, tendono a finire quello che i figli avanzano nel piatto “per non doverlo buttar via”. Questa prospettiva terrorizzava le donne del gruppo, non tanto per la paura di ingerire più calorie del dovuto, quanto per l’idea di non riuscire più ad avere il conforto di una routine alimentare che, prima della gravidanza, avevano fatto tanto fatica a costruire.
Orbitanti intorno a questo argomento c’erano anche altri assilli: “Io e mio marito difficilmente mangiamo la stessa cosa, il bambino sarà disorientato?”; “Io ho deciso di allattare, ma ho letto che l’appetito aumenta moltissimo: riuscirò a gestirlo?”; “Come faccio a capire se il bambino ha mangiato a sufficienza? Ho paura di dargli troppo poco”; “In casa non teniamo dolci e merendine, ma se poi lui le cerca cosa devo fare? Se le compro, ho paura di abbuffarmi come in passato”.
Ancora una volta, è stata la sinergia tra il mio lavoro e quello della psicologa a risultare vincente; non abbiamo dissipato completamente le paure, ma le abbiamo ridimensionate, e siamo riuscite a dare alcune risposte dalle quali le mamme avrebbero potuto far derivare le loro decisioni e azioni. Spesso la psicologa, con la quale le donne erano ormai in confidenza, ha sdrammatizzato le tensioni, tanto che la sua frase più celebre è stata: “E non abbiate paura di sbagliare: tanto sbaglierete comunque, e la colpa è sempre della mamma, lo dicono persino i testi universitari su cui io ho studiato!”.
Al di là dello scherzo, il gruppo di donne ha continuato e continuerà ad essere seguito dalla psicologa anche durante l’infanzia dei loro bambini, proprio per poter rispondere ai loro timori man mano che si presenteranno. Anche se loro, di fatto, possono dirsi guarite dal DCA, è importante avere una continuità del percorso – come se fosse un “mantenimento” – in tutti i periodi difficili della loro vita, perché le teorie su certe situazioni diventano mero filosofeggiamento fino a quando non ci si trova ad affrontare di petto la situazione, immersi in essa in prima persona.
Un consiglio che rivolgo a tutte le future mamme è quello di trovare professionisti in grado di supportare i cambiamenti psico-fisici che affronteranno durante i mesi dell’attesa: ormai al settimo mese, mi rendo conto che l’assetto emotivo e ormonale è completamente diverso rispetto a prima. Ci sentiamo più fragili e insicure, soprattutto quando pensiamo che tra poco avremo tra le mani un esserino che non potrà comunicare con noi se non con il pianto; siamo e saremo stanche. I nove mesi servono per accumulare energia e nozioni in potenza: forse quello che avremo appreso ci servirà, forse no, forse avremo bisogno di altro.
Ma ogni cosa che possa farci sentire più sicure di noi stesse e meno sole è la benvenuta: fosse anche solo un confronto con libri di formazione, più che con persone fisiche.
Se abbiamo insicurezze riguardo come e cosa dovremmo mangiare, chiediamo l’aiuto di un dietista: quasi sempre è previsto un loro intervento nei corsi pre-parto, ma nulla di vieta di chiedere una consulenza privata. E se temiamo di vivere male i cambiamenti fisici cui andremo incontro, chiediamo l’aiuto di una psicologa esperta di maternage, che ci aiuti a vivere con pienezza uno dei periodi che, per una donna, dovrebbero essere tra i più belli e sereni della vita.
4 Comments
Arianna, io non sono (ancora) mamma, ma hai commosso (e tanto) anche me…
Grazie Alessia, questo articolo è stato tra i più difficili da scrivere 🙂
Bravissima come sempre. Posso condividerlo sulla mia pagina? In quanto psicologa credo sarebbe molto utile diffondere queste tue parole.
Un bacino
Certo che puoi condividerlo, mi farebbe molto piacere!