Nel precedente articolo abbiamo iniziato a parlare della terapia per curare l’obesità, affrontando il lato psicologico e quello più strettamente medico.
Oggi ci concentriamo invece su dieta e sport; ma prima di iniziare ci tengo a ribadire il concetto che sta alla base di questi miei articoli:

Né la dieta né lo sport, da soli o in abbinata, servono a far perdere peso in modo definitivo al paziente obeso. Anche qualora non fosse necessaria alcuna cura medica (cosa assai auspicabile), la presenza di uno psicologo è indispensabile. 
Quando i chili da perdere si elencano a decine e non ad unità, non si tratta più solo di chili: si tratta di emozioni sedimentate in quei chili, di esperienze traumatiche e dolore cui si è tentato di porre silenzio con centinaia di migliaia di calorie nel corso del tempo.
Nessun dimagrimento di questo genere sarà mai possibile a lungo termine, se non si mira a sradicare alla base le disfunzionalità nel rapporto con il cibo.

Lato dietetico

Non si contano nemmeno più le diete che funzionano a far perdere peso: il sine qua non è che siano ipocaloriche. Per quanto, ormai lo sapete, io odi parlare di calorie e di calcoli matematici, non possiamo ignorare che quando i chili da perdere sono tanti non si sfugge dal mero bilancio energetico: se si introduce più di quello che si brucia, si ingrassa; viceversa, si dimagrisce.
I problemi di un eventuale blocco del dimagrimento (che esiste, eccome se esiste) si presenteranno solo dopo che sia stato perso almeno il 15-20% del peso corporeo iniziale, se non di più. Quando invece i chili da perdere sono pochi, questi problemi si incontrano molto più rapidamente: oggi stiamo parlando di obesità, e in caso di obesità il blocco del dimagrimento va ricontestualizzato.

La tipologia di dieta scelta per il dimagrimento del paziente è variabile a seconda del paziente stesso. Qualsiasi sia l’approccio prescelto, è importante che siano soddisfatte due richieste: stilare una dieta ricca di proteine, e prendere provvedimenti antinfiammatori.

Dieta proteica o iperproteica

In caso di forte dimagrimento, le proteine sono indispensabili a supportare il sistema immunitario e la massa metabolicamente attiva, incrementando di pari passo il metabolismo basale. Purtroppo, i rischi di una dieta troppo povera di proteine su una persona obesa sono innegabili: la perdita di peso avviene comunque, ma più di un dimagrimento si tratta di un deperimento, al punto che una delle conseguenze più frequenti delle diete basse di proteine è l’eccessiva facilità a rimettere il peso perso.
Quando la dieta non prevede sufficienti quantità proteiche tutto il corpo ne risente: il fisico è indebolito, gli organi funzionano male, le più semplici attività quotidiane sembrano una montagna da scalare. Oltretutto, le proteine sono un importantissimo stimolo alla sazietà e all’incremento del metabolismo basale, pertanto la loro presenza in quantità adeguate permette di aumentare la compliance (ossia l’aderenza) del paziente al piano dietetico.
Raggiungere i fabbisogni proteici in caso di obesità non è semplice, perché, calcoli alla mano, ci si potrebbe aggirare intorno a quantitativi pari a 80-140 g al giorno. In altri articoli (come ad esempio in questo) ho parlato delle difficoltà a elaborare diete (iper)proteiche, e avevo accennato al possibile utilizzo di integratori proteici che permettano di raggiungere una quota che viene solo parzialmente coperta dal cibo. Questo è normalmente quello che ci si prefigge di fare negli sport di potenza, dove il fabbisogno proteico è parimenti elevato: si arriva fin dove si riesce con materie prime “normali” (pollo, merluzzo, uova…), e si copre il gap rimanente con proteine in polvere. 
Nel trattamento dell’obesità non va tuttavia trascurato che l’uso delle proteine in polvere potrebbe non essere indicato per lungo periodo, sia a causa del potere insulinogenico delle proteine contenute nelle miscele, sia perché, qualora già presenti patologie epatiche o renali, si affaticano organi la cui funzionalità è già stata compromessa in precedenza. E’ questo il caso di un’obesità che si accompagna a diabete o ipertensione, ad esempio. Ecco dunque che possono venire in aiuto gli aminoacidi essenziali: non avendo scorie azotate, gli aminoacidi essenziali non comportano problemi di nocività, sono facilmente assimilabili e vengono utilizzati dai tessuti sofferenzi con immediatezza (sottolineo che l’eventuale problema delle diete iperproteiche si ha, appunto, quando la funzionalità di fegato e/o reni è già compromessa).

Purtroppo, la centralità delle proteine nelle diete per l’obesità fa sì che ci sia un’accesa diatriba sull’argomento (e parecchia confusione da parte del paziente): va pertanto ricordato il fine terapeutico di tali diete; non stiamo parlando di “alimentazione varia e naturale”, sulla quale può avere senso confrontarsi circa i quantitativi proteici normalmente assunti, bensì di “dieta per permettere di perdere 30-40-50 kg”, condizione di per sé lontana dalla naturalità, e che quindi richiede un approccio ben differente.

Dieta antinfiammatoria

L’obesità è una patologia infiammatoria, che causa a sua volta altre patologie infiammatorie: finché c’è infiammazione, non sarà possibile avere una completa guarigione.
Cerco di spiegare la condizione nei termini più semplici possibili.
L’infiammazione organica è un nemico silente, paragonabile ad un braciere: quando non è ben controllata dall’efficienza del sistema antiossidante organico, l’infiammazione può causare devastanti incendi, che logorano i nostri organi interni e li portano allo stremo. Pensate ad una malattia, una qualsiasi malattia, e quasi sicuramente troverete che è associata ad infiammazione: in certi casi l’infiammazione è locale e visibile (come quando avete una ferita infetta), in altri casi è più estesa e penetrante, al punto da poter bersagliare distretti che non hanno direttamente a che fare con la sede di innesco dell’infiammazione. E’ questo il caso di diabete, ipertensione, gotta, malattie neurodegenerative, ipotiroidismo, dermatite, psoriasi… e anche dell’obesità.

Curare malattie multifattoriali come quelle citate significa *anche* prendere in considerazione la portata dell’infiammazione, cercando di spegnerla attraverso accorgimenti antinfiammatori di alimentazione e supplementazione.

Dal momento che la dieta antinfiammatoria è utile a ciascuno di noi, e non solo a chi combatte contro l’obesità, mi riservo di pubblicare un articolo a parte settimana prossima, interamente incentrato sull’argomento.

Quale dieta?

Come ho specificato nell’incipit, non esiste “LA” dieta per l’obesità: esiste la personalizzazione del piano dietetico sulla base del paziente. Non è affatto semplice capire quale sia la strategia migliore, perché molto dipende dall’approccio psicologico con cui ci si avvicina al cambiamento di abitudini alimentari.
Potremmo suddividere l’obesità in tre differenti atteggiamenti, tenendo ben presente che si tratta di una classificazione sommaria e suscettibile di molte sfumature:
1. Paziente obeso inconsapevole della propria condizione. Secondo i dati della SIO (Società Italiana Obesità), una discreta percentuale degli obesi in Italia rientra in questa categoria, soprattutto se proviene da famiglie in cui il sovrappeso è diffuso: ogni singolo pasto è abbondante e luculliano, ricco di condimenti e generoso nelle quantità, ogni occasione è buona per festeggiare con un dolcetto o un piatto di carbonara. Queste persone fanno fatica ad accettare che il proprio sovrappeso non è una semplice propensione costituzionale, e non accettano di riconoscere gli i propri problemi fisici siano da ricondurre all’eccesso ponderale. 
Probabilmente il paziente che appartiene a questa categoria non ha mai intrapreso diete in precedenza, e ha una scarsissima educazione alimentare: qualora dovesse mettersi a dieta non sarà difficile fargli perdere peso, proprio perché il suo corpo non è mai stato soggetto agli effetti deleteri dello yo-yo. Inoltre, sarà possibile fare un percorso educazionale completo, senza preconcetti: al contrario, chi ha intrapreso molte diete in precedenza è sempre in balìa di informazioni conflittuali (uova sì o uova no? Primo e secondo ad uno stesso pasto o dieta dissociata), che condizioneranno enormemente le sue scelte.
Purtroppo, gli obesi inconsapevoli difficilmente si affidano a un professionista della nutrizione, proprio perché non ne riconoscono l’utilità e non sono propensi al cambiamento; quando lo fanno, è probabile che sia su pressioni esterne (del medico di base o dei vari specialisti consultati per altre patologie): non essendo intenzionati a seguire la dieta, è molto probabile che non adottino alcuno dei suggerimenti proposti per modificare le proprie abitudini alimentari.

2. Paziente obeso che ha già intrapreso diversi percorsi di dimagrimento, senza che nessuno sia stato efficace sul lungo termine. Di norma, quasi tutti i pazienti obesi arrivano dal dietista dopo aver consultato altri colleghi in passato, le cui diete si sono rivelate essere inefficaci non di per sé, ma per la scarsa aderenza sul lungo termine. 
Prima di parlare di monotonia della dieta o, peggio, scarsa volontà di dimagrire, andrebbe presa in considerazione l’ipotesi che nessuna dieta, nessuna, porterà un paziente obeso verso il normopeso.
Mi spiego meglio: nei precedenti articoli abbiamo visto quanto possa essere complicata la gestione dell’obesità da un punto di vista metabolico ed endocrino; per questo motivo è impossibile basarsi esclusivamente sul deficit energetico per promuovere il dimagrimento di un netto eccesso ponderale. La dieta ipocalorica è importante, ma non è l’unico obiettivo da perseguire: il corpo si abitua a stimoli alimentari (e sportivi) sempre uguali, quindi è inevitabile che, anche senza sgarri, ad un certo punto la dieta proposta smetta di funzionare. Questo è il momento critico, in cui il paziente percepisce vani i propri sforzi ed è più incline alle concessioni, “perché tanto anche se sto a dieta non dimagrisco”.
Il compito del dietista, a questo punto, è quello di riformulare la dieta per poter permettere di superare l’impasse: esistono diversi protocolli papabili per superare il blocco del metabolismo, che vanno valutati in relazione al paziente e al suo percorso. Ad esempio, in certi casi può essere utile inserire una settimana di dieta ipercalorica e iperglucidica, mentre in altri ha più senso inframmezzare la dieta in uso con brevi periodi di dieta chetogenica. 
La comunicazione tra dietista e paziente diventa indispensabile, probabilmente anche quotidiana nei periodi più delicati: il paziente deve tenere un dettagliato diario alimentare, cosicché il professionista capisca dove risiedano le criticità e riesca ad ovviarle attraverso la riformulazione della dieta. Il nuovo piano alimentare può essere una sostituzione temporanea (magari da adottare per qualche giorno o per breve periodo) oppure sostituirsi integralmente alla dieta usata fino a quel momento: nulla può essere stabilito a priori, va valutato con l’evoluzione della situazione.
Parimenti, è importante che il paziente non tenga nascosti extra e sgarri al dietista: un conto è se la dieta smette di funzionare per aver raggiunto un blocco ponderale; tutt’altro paio di maniche quando la dieta non funziona perché si apportano modifiche considerate innocue (gli esempi classici sono quelli di porzioni un po’ più abbondanti, sostituzione delle fonti proteiche di carne e pesce con i formaggi, uso frequente di affettati e prodotti confezionati, poca attenzione alla misurazione dei condimenti) o quando non vengono riportati momenti di difficoltà che sfociano in sgarri e/o abbuffate.

3. Paziente obeso esasperato dalle continue diete, che cerca la “soluzione definitiva”. Dopo anni di diete, blocchi e sblocchi, effetto yo-yo, annessi e connessi, il paziento è stanco: forse è anche dimagrito rispetto alla condizione di partenza, ma il peso da perdere rimane comunque tanto, e il percorso diventa sempre più difficile. Nel corso degli anni sono subentrati altri fattori di salute che hanno causato ulteriori rallentamenti del dimagrimento: la perdita di peso è una chimera da inseguire sia per scrivere il capitolo conclusivo di un percorso molto travagliato, sia perché ormai è diventata una priorità assoluta sulla salute.
In questo contesto si innescano le varie tipologie di “soluzione estrema” per l’obesità: si può trattare di protocolli dietetici molto rigidi ma inequivocabilmente efficaci (come può essere la dieta chetogenica, perseguita con cibo solido o con integratori di aminoacidi essenziali; è possibile applicarla solo su soggetti non cheto-resistenti e che non abbiano serie complicanze di salute), oppure delle varie declinazioni della chirurgia bariatrica.

La chirurgia dell’obesità

Esistono varie tecniche di chirurgia bariatrica, in grado di far perdere molto velocemente decine di chili al paziente obeso; tuttavia, la chirurgia da sola non serve a nulla: è indispensabile essa venga vista solo come un anello del percorso comportamentale ed educazionale del pazient. E’ stato dimostrato che, nell’arco di 10 anni, più dei due terzi dei pazienti obesi recuperano oltre il 50% del peso perso con l’intervento chirurgico: questo accade quando il paziente non è stato selezionato correttamente (ora vedremo cosa intendo) e quando viene abbandonato a sé stesso nel post-operatorio.

Di fatto, la chirurgia bariatrica è una possibilità di cura dell’obesità che si aggiunge a tutti gli altri aspetti di cui abbiamo parlato: non è “LA” soluzione.

Esistono dei criteri che permettono di selezionare pazienti adatti alla chirurgia bariatrica: non vi può accedere chiunque. Tra questi, c’è la richiesta di avere “profonda consapevolezza che il percorso post-operatorio sarà da prolungarsi a vita affinché i risultati della chirurgia siano veramente soddisfacenti”. Vale a dire che il paziente candidato alla chirurgia deve essere prima di tutto ben consapevole dei rischi e degli oneri che l’intervento stesso comporta, e in secondo luogo deve impegnarsi a perseguire una corretta alimentazione e attività sportiva per tutto il resto della sua vita. La chirurgia non “azzera” i suoi parametri metabolici ed endocrini, anzi: spesso li sconvolge; il rischio di aumentare di peso con maggior facilità di prima è tutt’altro che trascurabile e, anche a distanza di diversi anni dall’intervento e senza aver riacquistato peso, il paziente deve sempre essere considerato un ex-obeso. Chiaramente mi riferisco al mero aspetto nutrizionale e sportivo: i professionisti che lo seguiranno dovranno sempre considerare che c’è una fortissima predisposizione ad accumulare grasso, quindi le varie strategie di allenamento e dieta dovranno essere studiate ad hoc. Un ex-obeso dimagrito non è, da un punto di vista metabolico ed ormonale, allineabile ad una persona dello stesso peso corporeo, che non abbia mai avuto grosse variazioni ponderali.

Purtroppo spesso non si pone il dovuto accento sull’importanza della “terapia alimentare e sportiva a vita”: il paziente viene pian piano abbandonato, e ricade nei comportamenti alimentari autolesionistici che pian piano lo possono portare a recuperare quasi tutto il peso perso. 
E’ per questo motivo che risulta imprescindibile organizzare ben prima dell’intervento gli snodi del percorso psicoterapeutico e dietetico che dovrà essere affontato nel post-operatorio, e che potrebbe durare anni. Il paziente deve essere motivato, e deve premurarsi di trovare figure di riferimento a cui affidarsi con continuità, senza continuamente cambiare psicoterapeuta o dietista per non compromettere la linearità del percorso.

Detto questo, vi illustro gli interventi di chirurgia bariatrica, senza scendere nel dettaglio di pro/contro ed eventuali effetti collaterali di ciascuno: spetta al team chirurgico e ai dietisti curanti decidere quale intervento sia meglio per il paziente.
Interventi gastroresettivi, che riducono la capacità dello stomaco di accogliere cibo. Ad esempio, si può effettuare il bendaggio gastrico. Il paziente in questo modo può assumere solo piccoli volumi di cibo (inizialmente pari a una tazzina di caffè): mangiando molto meno, dimagrirà. 
Inutile dire che ovviare alla gastroresezione è possibile nel giro di qualche mese: mangiando in continuazione alimenti di piccolo volume ma densamente calorici (mousse, gelati e simili). E’ quello che accade nell’80% dei pazienti entro i 6 mesi dall’intervento.
Interventi malassorbitivi, che riducono la capacità di assorbire energia dal cibo. Si tratta di intervenire chirurgicamente su stomaco e intestino, di modo da cambiarne la conformazione anatomica e funzionale. Il paziente sarà da un lato obbligato a mangiare molto meno rispetto all’abitudine, e dall’altro non assorbirà bene le calorie ingerite. 
Gli effetti collaterali del malassorbimento possono essere di non poco conto, predisponendo ad ipovitaminosi e mutato assetto idrominerale. Il paziente dovrà prendere integrazioni alimentari per tutta la vita, sia per bocca (pastiglie), sia per iniezione.
Interventi misti, che, come dice il nome stesso, hanno una parte di malassorbimento e una parte di gastroresezione. Ad esempio il bypass gastrico; i rischi e le possibilità di insuccesso sono quelle precedentemente citate.

Dal momento che gli interventi chirurgici per l’obesità cambiano in modo anche radicale le visceri del paziente e le capacità digestive, è importantissimo che i primi mesi del post-operatorio siano a diretto contatto con il dietista, e che il dietista sia quello di riferimento del team chirurgico, così da non incorrere in carenze nutrizionali vitaminico-minerali e da poter ovviare gli effetti collaterali dell’intervento (nausea, vomito, dissenteria sono i più frequenti).

Lato sportivo

Prima di concludere questa serie di articoli sull’obesità, spendo due parole sull’aspetto sportivo: come quello psicologico e medico, affrontati la settimana scorsa, non è un ambito che mi compete, quindi mi limiterò a dare indicazioni piuttosto generiche.
Inutile dire che lo sport, come tutto il resto della terapia, deve essere accuratamente personalizzato e studiato sulla base del paziente; è necessario che ad accompagnare il percorso ci sia una figura competente: un laureato in Scienze Motorie, con una solida base di chinesiologia. Infatti, i rischi dello sport in caso di obesità non sono affatto da trascurare: un personal trainer poco qualificato potrebbe arrischiarsi a proporre piani di allenamento per dimagrire, trascurando proprio questi rischi che comprometterebbero l’intero percorso.
Il paziente obeso deve tener conto di:
Microtraumi causati dall’eccesso di peso corporeo; anche solo il semplice atto del camminare può usurare le articolazioni di caviglie e ginocchia, oltre che gravare sulla schiena. E’ quindi fondamentale che ancor prima di approcciarsi all’attività fisica ci sia una solida base di mobilità articolare, perseguibile con tecniche di stretching-and-conditioning, e che sia possibile utilizzare strumenti che assecondino i movimenti difficoltosi (ad esempio la fit-ball).
– Necessità di una base di resistenza cardiocircolatoria; sarà indispensabile tener monitorato il battito cardiaco con un cardiofrequenzimetro, per evitare che l’allenamento sia fatto completamente fuori soglia. Per “soglia” si intende quel range di battiti entro cui il corpo brucia prevalentemente grassi: è importante che gli allenamenti siano fatti prevalentemente sotto soglia, prevedendo comunque fasi fuori soglia che permettano il miglioramento e l’adattamento continuo. Un paziente non allenato rischia di uscire dalla soglia anche solo con una camminata blanda: in questo caso l’allenamento non solo sarà inutile (si bruciano zuccheri e massa muscolare, non grassi), ma anche pericoloso per cuore, circolazione e polmoni.
– Necessità di abbinare l’attività cardio ad attività con sovraccarichi; in questo modo non solo si bruceranno calorie, ma si stimolerà la crescita del muscolo e l’aumento del metabolismo. L’uso di sovraccarichi dovrà essere graduale e costante: inizialmente sono più che sufficienti esercizi a corpo libero che intervallino l’attività cardio (camminata o cyclette), con estremo controllo dell’esecuzione di ciascun esercizio.
– Importanza di focalizzare l’attenzione sulla fase di warm-up e cool-down dell’allenamento, vale a dire riscaldamento e defaticamento: solo in questo modo sarà possibile da un lato ridurre al minimo i rischi di strappi muscolari e infiammazioni tendinee, dall’altra evitare l’accumulo di lattato (che creerebbe un ambiente pro-infiammatorio).
– Infine, come per la dieta, anche l’allenamento deve tener conto dell’adattamento allo stimolo: se si persegue a lungo un allenamento sempre uguale, il corpo si adatterà e non reagirà più (ossia, pur continuando ad allenarvi anche 3-4 volte a settimana, non dimagrirete e non aumenterete il metabolismo). Il professionista cui vi siete rivolti dovrà prevedere i cambiamenti necessari, variando stimolo, durata, recupero, intensità, volume e densità di allenamento.

Spero di avervi dato una panoramica abbastanza esaustiva dell’approccio terapeutico all’obesità, e mi auguro che qualcuno, leggendo quanto ho scritto, si convinca a contattare le associazioni che si muovono per sostenere ed aiutare il paziente obeso.

Riferimenti

Società Italiana Obesità – http://sio-obesita.org/

Associazione Amici Obesi – http://www.amiciobesi.it/

Bibliografia

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– Bazerbachi F, Vargas Valls EJ, Abu Dayyeh BK – Recent clinical results of endoscopic bariatric therapies as an obesity intervention – Clin Endosc 2017 Jan
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– Palmisano GL, Innamorati M, Vanderlinden J – Life adverse experiences in relation with obesity and binge eating disorder: a sistematic review – J Behav Addict 2016 Mar
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