Articolo scritto a quattro mani in collaborazione con la dott.ssa Martina Migliore, psicologa e psicoterapeuta.

STORIA DI UN’AGONIA CONDIVISA: VIVERE CON CHI E’ OSSESSIONATO DAL CIBO

Vi siete mai chiesti come un familiare o un partner (o un figlio) possano vivere sotto lo stesso tetto di una persona costantemente ossessionata dal cibo? Il più delle volte si tratta di vivere di riflesso la malattia, la cui oppressione può farsi anche psicologicamente più destabilizzante poiché ci sente impotenti tanto nell’aiutare la persona cara, quanto nel soffrirne di rimando.
Nascondere un’ossessione in famiglia non è semplice: anche qualora non ci fossero significativi cambiamenti di peso come campanello di allarme, l’allerta con cui ci si approccia al cibo non può passare inosservata. A volte un genitore o un marito può accorgersi che qualcosa non va perché dalla dispensa spariscono considerevoli quantità di cibo: pacchi di biscotti o merendine, torte che al mattino sono intere e nel pomeriggio sono a metà, vasetti di Nutella o stecche di cioccolato. Tuttavia, è anche vero che chi si abbuffa compulsivamente riesce nella maggioranza dei casi a nascondersi, tamponando le abbuffate con repentine spese al supermercato come rimpiazzo. I segnali possono essere altri: ad esempio, nel caso della bulimia o del binge ci si potrebbe accorgere che a fronte di pasti in comune consumati con estrema moderazione (e anzi con un ipercontrollo quali-quantitativo), il peso della persona non cala, e di contro aumentano i disagi lamentati a livello gastrointestinale (gonfiore, fatica a scaricarsi, bruciore di stomaco). In parallelo, nel caso di comportamenti tendenti all’anoressia o all’ortoressia si può notare l’allarmismo con cui la persona incassa la notizia di pasti da consumare al ristorante in compagnia, l’offerta di un dessert, o qualsiasi altro imprevisto alimentare, che scombussola un rigido schematismo mentale autoimposto.

Come trovandosi su uno spericolato rollercoaster, il familiare si trova immerso in una spirale di stati emotivi alternati, condizione che -comprensibilmente- è estremamente difficile da gestire e da sopportare senza dare in escandescenze. Sarà confuso, spaventato e persino arrabbiato di fronte a un continuo cambiamento d’umore, a stati di euforia che si alternano al controllo ossessivo.
Il suo modo di vivere il cibo sarà completamente differente rispetto a quello del nostro paziente. Potrà essere una buona forchetta o potrà essere indifferente al cibo, potrà preoccuparsi del chiletto di troppo ma senza troppo curarsi di una cena fuori casa, e l’unico tipo di abbuffata che conosce potrebbe essere quella di Natale. Per lui il cibo non è un malefico ricattatore, anzi! Anche sforzandosi, non comprende proprio come questo possa accadere: è solo un innocuo biscotto, che diamine, come può creare tutti questi problemi!?
E non vi è davvero nulla da opporre: solo un simpatico, fragrante e dolce biscotto; solo una decisa, gustosa e invitante tavoletta di cioccolata; solo un’innocua e conviviale cena fuori in occasione del compleanno di un parente. Come possono creare tutto questo trambusto? Perché per mia figlia/moglie/sorella diventa così problematico cedere a uno sgarro senza riserve, apprezzandone semplicemente il gusto? Perché deve diventare una catastrofe che le piomba addosso, schiacciandola? E perché, quando cede di malavoglia al suddetto dolcetto o alla suddetta cenetta, deve poi mortificarsi con implacabili sessioni di allenamento e restrizione calorica?

Ahimè, come abbiamo ampiamente visto in questo precedente articolo sulle abbuffate, il senso di ineluttabilità annichilente è esattamente ciò che percepisce chi soffre di un DCA quando si trova davanti ad alimenti che lo tentano o a situazioni emotive che non sa gestire. Per alcune persone innocui alimenti divengono una vera fonte di terrore, dei potenziali potentissimi ricattatori, fonte di estrema sofferenza invece che di serena soddisfazione.
La vita di chi è ossessionato dal cibo è fatta di continui pensieri intrusivi su quante calorie hanno alcuni alimenti, su come sia possibile pilotare cene a favore delle loro diete sempre più complicate e restrittive, su come eventualmente contattare il ristorante per concordare un menu a parte, su come redigere una lista della spesa inflessibile -mirata al non trovare in casa alcun alimento pericoloso durante i raptus famelici-, su cosa preparare a pranzo e cena -operando rigorose e faticose divisioni tra cosa mangerà egli stesso e cosa mangeranno gli altri componenti della famiglia. Una vita quotidiana improntata agli eccessi: da una parte la pretesa di controllo estremo sulla composizione nutrizionale della minima briciola di pane che si ingerisce, e dall’altra la rottura violenta di ogni barriera durante le orge alimentari estreme, che lasciano il soggetto in preda alla depressione più nera.

Al di là di *che cosa possa pensare* (atteggiamento giudicante) un familiare che conviva con un paziente con DCA, chiediamoci invece *che cosa possa provare*.
Che cosa può provare un marito che viene costantemente rifiutato quando la moglie “si sente grassa”, magari dopo un semplice cono gelato? Cosa può provare un bambino che vede la mamma mangiare compulsivamente i biscotti che avevano cucinato insieme, e diventare sempre più irritabile ad ogni biscotto? Cosa può provare un fratello che vede la sorella diventare sempre più sottile e isolarsi dalle amicizie e dai rapporti sociali?

Ritrovarsi accanto a tali “schizofrenici” stati emotivi e comportamentali è un’impresa molto, molto ardua. Il detto “come fai, sbagli” è qui particolarmente azzeccato: se si rassicura e si assume un atteggiamento positivo, si induce un atteggiamento rabbioso, sprezzante. La reazione immediata di chi soffre di un rapporto tumultuoso con cibo e specchio sarà: “Ecco! Tu non mi capisci! In realtà non mi guardi nemmeno, non te ne frega nulla di me! Io lo so che faccio schifo, mi dici il contrario solo per farmi star buona/o, però magari l’occhio a qualcuno di più magro di me lo allunghi!”.
D’altro canto, se ci si mostrasse critici e si tentasse di rendersi partecipi alla lotta contro quelli che magari sono “solo” dei chili di troppo, si otterrebbe un atteggiamento estremamente chiuso e depresso, improntato alla severa autocritica e autocompiangimento. “Lo sapevo, sono senza speranza, vedi che avevo ragione? Tutte le volte che mi hai detto che ti piacevo erano prese in giro, in realtà faccio schifo e lo farò sempre”.
Malauguratamente entrambi gli stati, come sottolineato più volte negli articoli precedenti, favoriscono nuove abbuffate compensatorie o un digiuno ancora più marcato.

Nel vero e proprio dismorfismo si perde completamente la capacità di valutare la propria immagine corporea, con la convinzione di essere molto più grassi di come si è in realtà. C’è chi si vede più grasso e gonfio dopo un piatto di pasta e più asciutto semplicemente dopo aver detto ‘no’ a una pizza, e chi cambia la percezione del proprio corpo a seconda di com’è vestito o dei complimenti che riceve. Immancabile in molti casi è la sfiducia persino di fronte a dati oggettivi come peso o centimetri: anche quando i numeri parlano chiaro e registrano un dimagrimento (o quantomeno una situazione ponderale stazionaria), la persona può continuare a percepirsi diversa, più grassa, più brutta. Più sconfitta.
Quando il familiare o il partner fa notare questa incongruenza di percezione rischia di minare ulteriormente l’equilibrio del soggetto, che sentirà di avere qualcosa che non va, di essere psicologicamente instabile. Verrà esposto al rischio di depressione e sfiducia, con ovvie conseguenze dal lato comportamentale.

Un buon modo per favorire un maggiore contatto con la realtà è quello di aggirare il problema con tatto e discrezione: ad esempio, se il soggetto si vede più grasso di quello che concretamente è, potrebbe essere una buona idea regalare un abito della taglia che il soggetto è convinto di indossare, ma che è chiaramente troppo largo. “Tu mi hai detto di indossare una L, ma a me sembrava enorme… Vediamo come ti sta!”. Questo suggerimento è particolarmente indicato quando si ha a che fare con una persona ex-obesa, che nonostante il dimagrimento continua a vedersi come se avesse ancora addosso i 20-30 kg persi: non è infrequente che ciò accada, poiché il nostro occhio ci mette molto tempo a registrare (e accettare) le variazioni delle dimensioni corporee.
Per il familiare è anche bene tenere presente che i complimenti inaspettati e non enfatizzati sono quelli più significativi: un semplice “hai la pancia piatta/le gambe toniche/la vita stretta” viene vissuto in modo diverso se detto in un qualsiasi momento del pomeriggio ed en-passant, piuttosto che ripetuto come conforto dopo l’ennesima lamentela verso il proprio fisico.

Un appoggio discreto potrebbe essere rappresentato anche solo dal dedicare tempo all’ascolto dei pensieri ossessivi, cercando con tatto di far notare evidenti incongruenze nel pensiero logico (“sono grassa/o ma indosso una taglia in meno rispetto all’anno scorso”), oppure di ridimensionare oggettivamente certe iperboli mentali (“ho mangiato tantissimo oggi”, quando lo sgarro non era altro che della frutta in più o qualche cucchiaino di gelato rubato dalla vaschetta).
Dove possibile -e dove la confidenza lo permetta- è possibile usare la tattica della sdrammatizzazione: spesso il disagio psicologico rischia di manifestarsi solo sottoforma di vittimismo o di una continua nenia di lamentele. L’espressione del disagio da parte di chi soffre di un disturbo alimentare è produttiva solo quando è atta alla comunicazione (comunicare come forma di dialogo e richiesta di aiuto), non quando diventa un bozzo di seta nel quale rifugiarsi per sentirsi (auto)coccolati.

Questi suggerimenti hanno lo scopo principale di non far sentire solo il paziente: è importante che senta di poter contare su almeno una persona di fiducia nel nucleo familiare, un bastone amico per affrontare un sentiero impervio, qualcuno a cui rivolgere lo sguardo durante cene problematiche e pomeriggi ‘no’.

Un altro consiglio utile ai familiari è quello di partecipare attivamente alla vita alimentare del nostro paziente, senza fare in modo che le scelte di cosa mangiare/non mangiare diventino solo sue: il controllo marcato e senza possibilità di delega, che contraddistingue qualsiasi forma di DCA, andrebbe a fomentare l’ossessione. E’ invece importante che i familiari siano presenti tanto quando si tratta di fare la spesa, quanto al momento di concordare i singoli pasti.
Da un lato, il paziente si deve sentire al sicuro tra le mura domestiche: la cucina deve essere rifornita di alimenti che non causino l’innesco della compulsione, che non tentino e che -ove necessario- permettano la perdita di peso in modo sano (ricordiamo che spesso un rapporto tumultuoso con il cibo è associato al concreto bisogno di perdere chili in eccesso).
Sull’altro versante il problema è duplice: non si può chiedere a un’intera famiglia di privarsi di alimenti gratificanti come cioccolato o dolcetti (senza contare che spesso possono rappresentare un rischio anche alimenti normalmente innocui, come lo yogurt), e sarebbe parimenti sbagliato assecondare in tutto e per tutto le richieste del paziente, dando nutrimento alla sua ossessione e al suo ipercontrollo.
La soluzione potrebbe essere una sana via di mezzo: fare la spesa insieme è importante, scegliendo di comune accordo gli alimenti di cui dotare la dispensa, senza permettere al paziente di riempire il carrello di “alimenti di polistirolo” (gallette, bastoncini di crusca, yogurt magrissimi, gelati praticamente fatti d’aria…), e al contempo evitando di introdurre in cucina quegli alimenti che certamente diventerebbero l’innesco di un’abbuffata.
Fondamentale è anche evitare che il paziente si cucini pietanze diverse rispetto al resto della famiglia: i pasti devono il più possibile essere consumati in comune, senza cambiare le abitudini tenute sino a quel momento. E’ bene concordare insieme il menu giornaliero, ma facendo in modo che la scelta delle porzioni venga delegata a una persona di fiducia.
Sicuramente è importante consultare una dietista, che educhi alle scelte quali-quantitative più sane, e che rassicuri il paziente di fronte alle sua paura di ingrassare: conoscere i meccanismi con cui opera il ‘nemico’ (vale a dire, sapere che effetti ha sull’organismo il cibo consumato) è uno dei primissimi passi per ri-renderselo alleato.

Entrare nella mente di chi guarda al cibo come subdolo ricattatore e fonte di sofferenza non è affatto impresa facile, soprattutto quando vi sia una vicinanza affettiva come quella di una famiglia. Oltretutto, bisogna considerare anche altri due rischi a cui non abbiamo ancora accennato: da una parte, il paziente potrebbe cominciare a sentire ansia non solo per i propri stati d’animo, ma anche per quelli che andrebbe ad infondere in una persona cara (“Non voglio stia male per me/Gli sto facendo male/Lo sto deludendo”). Sull’altro versante, senza il sostegno psicologico offerto da una psicoterapeuta potrebbe essere fin troppo facile per il familiare provare rabbia e frustrazione di fronte alle ricadute del paziente, perdere facilmente la pazienza, o sentire che il rifiuto ad un cibo che si offre sia sostanzialmente un rifiuto alla persona (cosa che capita spesso alle mamme: si sento esautorate dal ruolo materno quando il figlio/la figlia rifiuta i pasti cucinati con amore).

Esistono delle possibilità di conforto e avvicinamento che possono certamente essere tentate. L’ascolto empatico è una di esse. Chiedersi che immagine vede davvero riflessa nello specchio il soggetto, per risultarne così terrorizzato, indurlo a spiegarcela assumendo un atteggiamento di sincerà curiosità: questo potrebbe essere un buon inizio. La vergogna che tali soggetti provano inficia la maggior parte delle loro manifestazioni di affetto, ed è perciò un punto cruciale da condividere: potrebbe essere di immenso aiuto ad un marito ai cui occhi la moglie è stupenda capire concretamente cosa lei veda quando si guarda nuda allo specchio. Quello che è importante è non banalizzare tali descrizioni, o uscirne con frasi come “Sei pazza, in realtà sei bellissima!”: se da un lato il complimento fa piacere, dall’altro una frase simile farebbe sentire incompresa la paziente.
L’ascolto empatico può essere utile anche quando ci si trova di fronte a imprevisti alimentari che il paziente vive come opprimenti: mettiamoci seduti comodi sul divano con lui/lei, e chiediamogli cosa lo spaventi tanto della cena fuori, cerchiamo di razionalizzare e di trovare soluzioni. E’ vero che c’è quel tale invito a cena fuori (o aperitivo o festa di compleanno), ma sicuramente esistono compromessi accettabili sia per il paziente sia per l’occasione sociale: magari ordinare una pizza integrale senza mozzarella per evitare quel senso di gonfiore che verrebbe ingigantito fino a diventare totalizzante? Magari chiedere una mezza porzione di primo piatto del menu fisso, o vedere se sia possibile ordinare piatti senza salse? Cerchiamo insieme al paziente alternative percorribili, e stiamogli accanto.

Sempre dal punto di vista alimentare, il familiare dovrebbe cercare di alleviare l’iper-controllo del paziente, allontanandolo dall’ossessiva ricerca di diete alternative e alimenti ‘strani’. Potrebbe invece essere gratificante per entrambi cercare ricette da realizzare insieme con ingredienti semplici, sani e consapevoli, semplificando in questo modo, anche economicamente (i cibi light o miracolistici non lo sono mai nel prezzo!), la vita di chi suda sette camicie ogni giorno per far quadrare i conti calorici. In fondo una cucina consapevole può solo giovare a tutta la famiglia!

Ultimo, ma non certo meno importante: tanta pazienza e sostegno. L’atteggiamento della soluzione veloce a tutti i costi, e dell’incitamento all’azione per contrastare quella che si crede mancanza di motivazione, non funziona mai, anzi amplifica il senso di solitudine estrema che questi soggetti sperimentano ogni giorno.
Ammettere il proprio senso di impotenza, la propria sofferenza riflessa, invece, possono condurre ad una reale condivisione che può fare da anticamera ad un sostegno concreto e funzionale.

Rinnoviamo comunque l’invito ad avvalersi di figure professionali di sostegno, utili in questo caso non solo al paziente ma anche al familiare. L’ideale sarebbe rivolgersi a una coppia dietista-psicoterapeuta che già si conoscano e collaborino, così da costruire un percorso animato da obiettivi comuni, arrivando al traguardo grazie a strumenti condivisi.

Parte alimentare:
Arianna Rossoni
Contatti qui

Parte psicologica:
Martina Migliore
Psicologa psicoterapeuta
Specializzata in psicoterapia cognitivo comportamentale
Studio a Umbertide (PG) in via Martiri dei lagher 4/b
Tel. 3429068590
martina.migliore@gmail.com