Oggi inauguro una nuova rubrica, la categoria “Gourmet”: dovete sapere che, oltre ad essere una dietista e una salutista, sono anche appassionata di tutto quello che è gastronomia di alta qualità. Chiaramente non banchetto a caviale e ostriche, ma quando posso partecipo ad eventi gastronomici che presentano prodotti di alta qualità, meglio ancora se eticamente ed ecologicamente sostenibili.
Ho pensato che sarebbe interessante arricchire il mio sito presentando anche a voi l’eccellenza di certe materie prime, perché attraverso questi approfondimenti si riesce a capire quanto l’industrializzazione del cibo lo standardizzi e lo snaturi della sua componente edonica, finendo per essere mero bisogno fisiologico o -peggio- dipendenza mentale.

Apro la rubrica parlando del mio -ehm- punto debole: il cioccolato.
Non stiamo parlando di cioccolato qualsiasi, bensì di cioccolato di alta qualità. E no, il cioccolato della Lindt non è propriamente “alta qualità”…

Che cos’è il cioccolato di qualità? Con quali criteri possiamo distinguere le diverse tavolette secondo il loro pregio? Questo articolo avrà uno scopo eminentemente pratico: permettervi, la prossima volta che entrerete in un negozio specializzato o in un supermercato, di orientarvi consapevolmente nella selva di tavolette in esposizione. E magari di incuriosirvi verso certe degustazioni…
Se volessimo grossolanamente indicare quali sono le caratteristiche di una tavoletta di cioccolato che ne determinano la qualità finale, potremmo dire che la varietà di cacao incide per il 50%, la coltivazione per il 25%, e il processo di lavorazione per un altro 25%. È quindi indispensabile analizzare approfonditamente ciascuna di queste tre componenti: conoscerle, significa avere gli strumenti di base per valutare la qualità del cioccolato che andremo a degustare.

Le varietà di cacao
Cominciamo dalle diverse varietà di cacao: è una questione cruciale, sulla quale purtroppo regna molta confusione, generata anche dalle tante affermazioni inesatte che sull’argomento vengono espresse a tutti i livelli, persino da intenditori, esperti e pubblicazioni del settore. Secondo una diffusa opinione, esisterebbero tre principali varietà di cacao: Criollo, Forastero e Trinitario. Infatti, verso il 10.000 a.C., la distribuzione delle piante di cacao nell’America centrale e meridionale (luoghi d’origine del cacao) subì una netta differenziazione: si formarono due distinte aree geografiche, una nelle Ande venezuelane, l’altra nell’Amazzonia brasiliana, dove le piante di cacao poterono svilupparsi indipendentemente e consolidare il proprio patrimonio genetico senza mai entrare in contatto con le piante dell’altra area. Intrapresero perciò due percorsi evolutivi nettamente distinti, e questo diede vita alle due varietà di cacao che oggi conosciamo con i nomi di Criollo e Forastero.
Il Criollo è la miglior qualità di cacao presente sul mercato: possiede ottime qualità organolettiche, ma ha una resa piuttosto bassa ed è più difficile da coltivare perché più delicato e facilmente attaccabile dai parassiti. Il Forastero, al contrario, ha una buona resa, maggiore resistenza, ma fornisce un cacao di bassa qualità, con amarezza, astringenza e acidità piuttosto marcate. Non sorprende dunque che la produzione mondiale di cacao sia coperta per il 90% dal Forastero, e solo per il 2-4% dal Criollo, nettamente più costoso. Quando si dice che “il cioccolato fondente è amaro” si sbaglia: il Forastero, ossia la verità meno pregiata, è amaro. Se assaggiate una tavoletta di Criollo rimarreste sorpresi di sentire note di nocciola, miele, frutti rossi, senza che nessuno di questi ingredienti sia aggiunto alla tavoletta.
Esistono comunque delle eccezioni a questo schema, perché esistono delle sottovarietà di Forastero ritenute pregiate e assimilabili al Criollo: ne sono un esempio l’Arriba Nacional ecuadoriano e il Nacional peruviano (scoperto recentemente, nel 2011).
La restante quota della produzione totale di cacao, circa il 6-8%, è occupata dal Trinitario, che è un ibrido tra Forastero e Criollo, e viene considerato un cacao di alta qualità, sebbene mediamente inferiore al Criollo. La sua storia, secondo la teoria più accreditata, è piuttosto interessante, e vale quindi la pena di essere citata. Nel 1727, un cataclisma si abbatté sull’isola di Trinidad (situata a 11 km dalla costa del Venezuela), distruggendo quasi tutte le piante di cacao Criollo presenti sul territorio; trent’anni più tardi, per non privarsi del prezioso alimento, un gruppo di monaci cappuccini decise di ripristinare le coltivazioni di cacao sull’isola, e per far questo importò semi di Forastero dalla terraferma, che si ibridarono con quelli superstiti di Criollo dando vita così ad una nuova varietà denominata Trinitario, dal nome dell’isola di Trinidad.

A complicare la faccenda delle tre varietà principali di cacao, vi è il fatto che raramente le piante e i frutti del cacao appartengono al 100%, dal punto di vista genetico, ad una singola varietà: esse tendono ad incrociarsi liberamente (anche perché molte piante sono autoincompatibili, necessitano cioè di un altro tipo di pianta per essere impollinate), mescolando i loro patrimoni genetici, e dando vita a moltissime varietà di piante di cacao (se ne contano fino a 12000), ciascuna con caratteristiche proprie, con geni dell’una e dell’altra varietà. Così, i semi di un frutto di cacao potrebbero essere Criollo per il 90% del loro patrimonio genetico, e Forastero o Trinitario per il restante 10%. È per questo che, per esempio, all’interno della famiglia dei Criollo, possiamo distinguere diverse sottovarietà, come il Porcelana, il Carupano, il Puerto Cabello, il Guasare, il Chuao, l’Ocumare, il Canoabo (memorizzate questi nomi, sono tra le varietà migliori di cacao): tutti Criollo, ma con patrimoni genetici (e qualità aromatiche) differenti.

Tutte queste nozioni sulle varietà di cacao sono ciò che viene comunemente sostenuto da siti specializzati, libri, produttori e venditori di cioccolato, e per gli scopi pratici di questo articolo ciò è sufficiente: quando entrate in un negozio e volete acquistare una tavoletta di qualità, vi consiglio di leggere attentamente le informazioni riportate sulla confezione, accertandovi della varietà di cacao da cui è prodotta; di solito, se si tratta di Criollo o Trinitario, ciò viene messo bene in evidenza perché è un titolo di merito per il produttore.
Tuttavia, è bene sapere che, negli ultimi 10 anni, importanti studi di genetica condotti dal ricercatore Juan C. Motamayor e dalla sua équipe, dimostrerebbero l’infondatezza di questa tripartizione delle varietà di cacao, perché si è riscontrato che alcune varietà di Criollo antico sono geneticamente più simili ad alcuni tipi di Forastero, di quanto questi ultimi lo siano ad altri Forastero. In altre parole, la distinzione tra Criollo e Forastero non avrebbe una solida base genetica, ma deriverebbe dal modo in cui storicamente i coltivatori di cacao venezuelani definivano il cacao locale (Criollo) in contrapposizione a quello proveniente da altri paesi (Forastero, che infatti significa ‘straniero’). Per ovviare a questa confusione, nel 2008 Motamayor e colleghi hanno proposto una classificazione molto più precisa delle piante di cacao sulla base della loro somiglianza genetica, determinandone dieci varietà: Marañon, Curaray, Criollo, Iquitos, Nanay, Contamana, Amelonado, Purús, Nacional e Guiana. Queste denominazioni non hanno ancora preso piede dal punto di vista commerciale: i produttori preferiscono rifarsi alla scorretta tripartizione tradizionale, sia per ragioni di marketing, sia per non ingenerare confusione nei consumatori ormai abituatisi a distinguere il cacao secondo le tre varietà sopra elencate; ma è probabile che in futuro acquistino sempre più importanza, permettendo a produttori e consumatori di comprendere meglio e valorizzare al massimo le potenzialità insite in ciascuna varietà di cacao.

In conclusione, possiamo affermare che la tripartizione delle varietà di cacao in Criollo, Forastero e Trinitario, pur se scientificamente infondata, è ancora un utile criterio pratico per distinguere la qualità delle tavolette quando siamo in un negozio, ma non deve spingerci a demonizzare snobisticamente tutti i tipi di Forastero. La cosa migliore da fare è assaggiare, in maniera consapevole, quante più tavolette possibile, allenando i nostri sensi a cogliere le sottili sfumature aromatiche proprie di ciascuna varietà di cacao.

La coltivazione del cacao e la lavorazione del cioccolato
Usciamo adesso dal’insidioso ginepraio delle varietà di cacao, e tuffiamoci nelle fasi di coltivazione e lavorazione del cacao, che come detto contribuiscono per il 50% circa alla qualità della tavoletta. Seguiremo la fava di cacao lungo tutto il suo viaggio, dalla raccolta sino alla sua trasformazione finale in tavoletta di cioccolato: scopriremo così come ogni fase di questo processo possa influire sulla qualità finale del prodotto, e debba quindi essere effettuata correttamente.

I semi di cacao, dopo essere stati prelevati dalle cabosse (così sono chiamati i frutti dell’albero di cacao), vengono trasportati in centri di raccolta e posti in casse di legno dove avviene il processo di fermentazione. Questo processo, innescato dai lieviti e dai batteri presenti nella polpa bianca che circonda le fave fresche, provoca una trasformazione biochimica dei semi mediante la quale si sviluppano alcuni degli aromi e dei precursori degli aromi del cacao (sono detti precursori perché verranno trasformati in aromi solo nella successiva fase di tostatura). Con la fermentazione, che dura da un minimo di 2-3 giorni ad un massimo di 7-8 giorni, i semi di cacao, che al momento della raccolta sono praticamente insapori, cominciano a sviluppare molte delle 400 sostanze chimiche presenti nel prodotto finale e responsabili della complessità dell’aroma del cioccolato: è quindi importante che tale fase sia effettuata in maniera ottimale, altrimenti il cacao non esprimerà tutto il suo potenziale aromatico. Una fermentazione troppo prolungata rischierebbe di distruggere le componenti migliori e più delicate del gusto del cacao, nonché di renderlo troppo acido; d’altra parte, una fermentazione frettolosa potrebbe non svilupparne appieno gli aromi, e lasciarlo troppo amaro. In generale, comunque, i cacao migliori richiedono tempi di fermentazione minori, perché sviluppano più velocemente gli aromi. Per dare un’idea di come in questa fase iniziale ogni dettaglio faccia la differenza sul sapore finale della tavoletta, il grande cioccolatiere danese Friis Holm ha prodotto due tavolette, denominate Chuno 70% Double Turned e Chuno 70% Triple Turned, che differiscono l’una dall’altra per il solo fatto che in una i semi di cacao durante la fermentazione vengono mescolati due volte nelle casse di legno, mentre nell’altra tre volte: e la differenza si sente!

Dopo la fermentazione, le fave vengono stese su telai di legno all’aperto per farle essiccare. Ciò è fondamentale per diversi motivi: arresta il processo di fermentazione, che altrimenti proseguirebbe per troppo tempo, e riduce l’umidità e l’acidità dei semi, che devono essere il più basse possibile nel prodotto finale. Anche in questo caso, un’essiccazione non ottimale influirebbe negativamente sull’aroma finale della nostra tavoletta di cioccolato. Dopo l’essiccazione, i semi vengono classificati, confezionati e poi spediti nei Paesi dove avviene la lavorazione delle fave di cacao.

Da quanto detto finora, risulta evidente l’importanza che il controllo di tutta la filiera produttiva riveste per le aziende e i laboratori che producono cioccolato: molto spesso, infatti, i coltivatori dei paesi tropicali sono i primi a non avere le conoscenze e le competenze necessarie per far sì che ogni fase della coltivazione venga svolta in modo ottimale (e del resto a volte il loro interesse è di raccogliere e di vendere il più presto possibile il cacao, e ciò a scapito della sua qualità). I cioccolatieri possono assicurarsi tale controllo o diventando direttamente proprietari di piantagioni (come fanno Domori, Valrhona, Claudio Corallo, Pralus), oppure inviando del personale che controlli in loco che tutto venga effettuato in modo adeguato. Questo non è comunque un dogma: si può fare dell’ottimo cioccolato anche partendo dai semilavorati, se questi vengono prodotti nella maniera giusta e con ottime materie prime.

A questo punto le nostre fave sono pronte per essere lavorate: dopo essere state pulite, inizia una fase cruciale, quella della tostatura, mediante la quale i semi di cacao vengono portati ad una temperatura che può variare tra i 120 e i 180°C, per un tempo oscillante tra i 15 e i 60 minuti. In questa fase i precursori degli aromi sviluppatisi durante la fermentazione si trasformano in nuovi composti aromatici, e gli aromi già presenti vengono amplificati; si tratta perciò di una fase molto delicata: una tostatura eccessiva priverebbe il cacao dei suoi aromi più fini e delicati, conferendogli un sentore di bruciato, mentre una tostatura insufficiente non ne svilupperebbe appieno il bouquet aromatico, che risulterebbe piuttosto piatto (questo è un problema che hanno talvolta le tavolette raw o crude, oggi di gran moda, che vengono tostate a temperature inferiori ai 70°C; l’unica tavoletta raw che ho trovato fenomenale è quella venezuelana del cioccolatiere Guido Castagna). Anche in questo caso, cacao migliori richiedono tempi e temperature di tostatura inferiori per sviluppare gli aromi, e ciò a beneficio di una maggiore ricchezza aromatica. La tostatura ha anche altri effetti sulle fave di cacao: ne provoca la sterilizzazione, ne riduce ulteriormente l’umidità e rende friabile la cascara, cioè la pellicola esterna della fava. Infatti, dopo la tostatura, le fave vengono decorticate, cioè private della cascara, e poi macinate, ossia ridotte ad una pasta grossolana tramite pesanti ruote in granito che stritolano la granella all’interno di una vasca. Con la macinatura il cioccolato fonde per la prima volta e si ottiene così uno degli ingredienti indicato sull’incarto della tavoletta: la pasta o massa di cacao. Quest’ultima ha una consistenza ancora molto granulosa e necessita perciò di un’ulteriore fase di raffinazione per ridurne la granulometria, obiettivo che viene raggiunto tramite un sistema di cilindri rotanti.

Il passo successivo è di importanza decisiva: si tratta del concaggio. Come dice il nome stesso, l’impasto di cioccolato, mantenuto liquido ad una temperatura di 50-80°C, viene posto all’interno di una conca dove un rullo mosso da un braccio meccanico mescola continuamente il cioccolato per un tempo fino a 72 ore. In questo modo ne riduce ulteriormente la granulometria, conferendo al cioccolato quella paradisiaca consistenza morbida e vellutata a cui siamo abituati. Oltre a questo, il concaggio permette di ridurre l’acidità e l’umidità del cioccolato, di arricchirne gli aromi e di amalgamare gli ingredienti non ancora aggiunti all’impasto (lecitina, vaniglia, zucchero). Il concaggio può essere effettuato anche con un mulino a biglie, composto da un contenitore dentro cui numerose biglie d’acciaio vengono fatte collidere ad altissima velocità, amalgamando l’impasto di cioccolato presente anch’esso all’interno del contenitore. Questo sistema, utilizzato per esempio da Domori, permette di concare a temperature inferiori e per minor tempo (Domori conca a 50°C per 8 ore), e facilita la preservazione degli aromi del cacao, ma ha un difetto: secondo alcuni esperti non riuscirebbe infatti a ridurre l’acidità con la stessa efficacia delle conche tradizionali; va detto comunque che un cacao di ottima qualità ha già di per sé un’acidità piuttosto bassa. Per farvi un’idea degli effetti del concaggio sulla tavoletta, pensate al cioccolato modicano, che non viene sottoposto né a raffinazione, né a concaggio: molto grezzo e granuloso, è più da masticare che da lasciar sciogliere in bocca.

Terminato il concaggio, il cioccolato viene sottoposto al temperaggio, per renderlo lucido, omogeneo, uniforme, senza grumi né chiazze. Infine, viene versato negli stampi e poi confezionato, pronto per raggiungere gli scaffali di negozi e supermercati.

A questo punto potrebbero essere utili alcune considerazioni sulle modalità di conservazione del cioccolato, che se errate potrebbero inficiare l’integrità della tavoletta. L’ambiente deputato ad ospitare il nostro prezioso alimento dovrebbe avere una temperatura tra i 13 e i 18° C, con un’umidità non superiore al 60%. Inoltre, poiché il burro di cacao è un forte assorbente di odori, vanno evitati tutti i luoghi in cui il cioccolato può entrare in contatto con esalazioni provenienti da altre sostanze: sono sconsigliabili quindi sia il frigorifero, che inoltre ha una temperatura troppo bassa ed è umido, sia la dispensa della cucina. Infine, sono da evitare tutti gli sbalzi di temperatura, che stresserebbero la tavoletta alterandone la struttura: ecco perché a volte le tavolette mal conservate presentano una patina biancastra o chiazze e striature: il burro di cacao presente all’interno si scioglie e tende ad affiorare in superficie.

Al termine di questa prima parte abbiamo imparato a capire quanto il processo di produzione incida sulla qualità della nostra tavoletta di cioccolato, e che parlare genericamente di “cioccolato” è come dire semplicemente e vagamente “vino”.
Nel prossimo articolo impareremo a leggere l’etichetta di un cioccolato di qualità, e vi darò qualche consiglio da veri gourmet!

Bibliografia
1. J.C. Motamayor et al., “Cacao domestication I: the origin of the cacao cultivated by the Mayas”, disponibile qui.
2. J.C. Motamayor et al., “Cacao domestication II: progenitor germplasm of the Trinitario cacao cultivar”, disponibile qui.
3. J.C. Motamayor et al., “Geographic and genetic population differentiation of the Amazonian chocolate tree (Theobroma cacao L)”, disponibile qui.
4. R. Caraceni, “La degustazione del cioccolato: degustazione – valutazione – analisi organolettica”, Hoepli, 2010.