Oggi vi voglio parlare della soia, e dell’innumerevole serie di alimenti che ne derivano. Molti di voi mi contattano o mi chiedono informazioni riguardo i prodotti derivati dalla soia, in particolar modo quando inseriti in una dieta vegetariana o vegana. Io rispondo sempre allo stesso modo: non ritengo che i prodotti derivati dalla soia siano adatti ad un consumo frequente; anzi: secondo me non bisognerebbe proprio farne uso, con poche eccezioni.
Premetto fin da subito che quest’articolo si discosta -e di molto- dall’opinione di molti professionisti della nutrizione: il mio punto di vista è opinabile, ma vi esporrò tanto le mie perplessità irrisolte quanto i dati di fatto che mi giustificano.

La soia è una pianta appartenente alla famiglia delle Leguminose; è originaria di Cina e Giappone, ma attualmente viene coltivata in tutto il mondo. I maggiori produttori sono gli Stati Uniti, che stando ai dati FAO 2008 provvedono al 35% delle oltre 230 milioni di tonnellate annuali: un dato colossale, che fa girare la testa al solo pensiero. Com’è possibile che una sola varietà di legume venga prodotta in modo così incisivo sull’economia globale, e dove vanno a finire quei raccolti sterminati? Chi ha letto il libro di M.Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, può farsi una prima idea: l’autore ci descrive gli immensi campi di soia americani, affiancati da campi di mais e da allevamenti intensivi di bovini. Nel perverso meccanismo agrario americano, i manzi e le mucche forniscono letame che va a fertilizzare le coltivazioni di soia e mais, che a loro volta diventeranno mangime per gli animali. Dunque, la maggior parte della soia coltivata diventa foraggio per gli animali, ma le coltivazioni risultano comunque largamente eccedenti: se non si trovasse un altro uso sarebbe una perdita economica ragguardevole.

Facciamo un passo indietro. Non me ne intendo quasi per nulla di tecniche agrarie, ma ho qualche nozione base che sicuramente ricorderete anche voi dagli studi fatti a scuola: mi riferisco alla rotazione delle coltivazioni, ossia quel sistema che permette di rendere più fertile un campo attraverso l’alternanza di diversi tipi di coltura, alcune ad alta resa ma che impoveriscono il terreno, altre con scarso valore nutrizionale ma utili ad arricchire la terra. Il classico esempio è quello dell’alternanza di Graminacee depauperanti (avena, grano, segale, sorgo, granturco, orzo) e Leguminose miglioratrici (arachide, cece, lenticchia, lupino, erba medica, trifoglio, fieno greco, fagiolo, pisello, soia). Le Leguminose sono in grado di fissare grandi quantità di azoto atmosferico, azoto che una volta rilasciato nel terreno diventerà materia organica per successive coltivazioni. Le Leguminose arricchiscono di azoto un terreno che è stato impoverito dalle Graminacee.
In Cina e Giappone la soia ha cominciato ad essere coltivata per arricchire i terreni in previsione della semina di cereali: inizialmente non era affatto riservata al consumo umano. Tra le Leguminose, la soia è la pianta maggiormente utilizzata perché è economica, più resistente, che si adatta meglio alle condizioni climatiche e che contribuisce in modo più incisivo ad aumentare l’azotofissazione; la caratteristica di poter garantire il massimo risultato con il minimo di perdita economica ha reso la soia la più grande protagonista delle coltivazioni americane negli ultimi 50 anni. Grazie ad essa è contemporaneamente possibile arricchire d’azoto i terreni e avere mangime per i milioni di capi bovini degli allevamenti intensivi. Ma le eccedenze di soia, dove vanno a finire?

Vi faccio un’altra domanda: sapevane che la maggior parte dei prodotti alimentari industrializzati contiene soia? Non come alimento a sé stante, ma come ingrediente in almeno tre diverse forme: lecitina, olio e proteine.
Se leggete gli ingredienti sulle etichette vedrete riportata in due prodotti su tre la presenza di “lecitina” (sigla E322), una sostanza derivata dalla soia che viene utilizzata come emulsionante e stabilizzante. L’olio di soia è utilizzato per il suo bassissimo costo, mentre le proteine sono utilizzate come ingrediente (spesso sono riportate in etichetta semplicemente come “proteine vegetali”), ma non solo: sono vendute anche come integratori proteici o in aggiunta a preparazione di nutrizione enterale (alimentazione tramite sondino).

Al di là dell’impiego di suoi estratti, dalla soia si possono ricavare bevande, yogurt, mousse, bistecche vegetali e può essere utilizzata come farina nella preparazione di dolci e pane. L’aumento del consumo di questi alimenti sembra essere stato incentivato da una massiccia propaganda salutistica: dagli anni ’80 ad oggi gli studi volti a dimostrare gli effetti miracolistici della soia sono aumentati esponenzialmente. La soia sembra essere diventata la panacea di tutti i mali: abbassa il colesterolo cattivo, diminuisce la pressione, aiuta la perdita di peso, protegge dal cancro al seno…
Nello scorso articolo vi ho parlato delle numerose insidie che si nascondono dietro gli studi scientifici, il più rilevante dei quali è il conflitto di interessi, vale a dire il finanziamento diretto o indiretto di studi scientifici da parte di aziende che mirano ad utilizzare i risultati tali studi a proprio vantaggio. E se a ben guardare gli studi sulla soia fossero stati largamente finanziati dalle stesse colossali industrie agroalimentari americane che detengono il primato per la produzione della soia? Questa domanda non me la sono fatta solo io: alcune ricerche indipendenti statunitensi parrebbero confermare quest’ipotesi, ma spesso sono insabbiate o smentite; avere una risposta certa al quesito è arduo se non impossibile, ma conoscendo il perverso sistema che lega le multinazionali alimentari e la FDA americana (Food and Drug Administration, equivalente all’europea EFSA) penso che il sospetto sia più che lecito.

Volendo comunque basarmi su fatti e non su supposizioni, perché sono contraria all’uso abituale di soia e prodotti da essa derivati?

1. E’ vero che in Cina e Giappone si fa uso di prodotti da soia, ma si tratta quasi esclusivamente di alimenti fermentati, ovvero tempeh, miso e tamari. Il tofu, al contrario di quello che si pensa, non è fermentato ma può essere fatto fermentare (è conosciuto perlopiù con il nome di sufu). Il latte di soia, quando bevuto, è fatto con un procedimento casalingo molto più lungo e complesso di quello sfruttato a livello industriale.
2. I prodotti non fermentati della soia non sono salutari, in quanto contengono sostanze antinutrienti (i fitati) che diminuiscono l’assorbimento di alcuni minerali, tra cui calcio, magnesio, rame, ferro e in particolare zinco. Carenze di questi elementi, soprattutto nei bambini, determinano problemi e ritardi nella crescita.
I fitati sono contenuti anche in altri legumi (lenticchie, fagioli, ceci…), ma in misura minore. Il lungo ammollo in acqua e la cottura prolungata diminuiscono il contenuto di fitati: a livello industriale la soia non sempre viene sottoposta ad ammollo, e non sempre viene cotta per tempi adeguati (per la preparazione di alcuni prodotti, come quelli a base di proteine della soia, non è cotta affatto).
3. Gli effetti salutistici della soia sono perlopiù legati a una particolare classe di fitoestrogeni abbondantemente contenuta in questo legume: gli isoflavoni. Il loro effetto è associato ad alcuni benefici per la salute: il più conosciuto è la presunta azione protettiva verso il cancro al seno. Quello che però è ignoto ai più è che la maggior parte dell’efficacia degli isoflavoni è dipendente dalla capacità della flora batterica intestinale di fermentare e trasformare gli isoflavoni: è stato stimato che solo il 35% della popolazione mondiale sia in grado di trasformare l’isoflavone daidzeina in equolo (il metabolita più attivo). Questa differenza è visibile a livello di popolazione: le donne asiatiche hanno una flora favorente la trasformazione, le donne europee sono meno in grado di attuare tale metabolizzazione.
L’azione anticancro degli isoflavoni della soia è comunque avvolta da numerosi dubbi: l’effetto sembrerebbe essere positivo in età pre-menopausale, ma dopo la menopausa gli isoflavoni potrebbero favorire il cancro al seno (soprattutto se dati come integratore). La maggior parte degli studi che stabiliscono una correlazione tra isoflavoni e protezione dal cancro non è stata condotta sull’uomo ma con test di laboratorio o su animali.
4. Gli isoflavoni hanno un effetto negativo sulla fertilità sia maschile che femminile; dal momento che mimano gli effetti degli estrogeni (ormoni sessuali) non è difficile immaginare che interferiscano con l’equilibrio ormonale, anzi: è proprio su questo che gioca la loro probabile azione inibente il cancro. L’effetto avverso della soia sulla fertilità è evidente soprattutto nei maschi (interferenza con la produzione di testosterone) e nel caso in cui da bambini si sia stati alimentati con bevande a base di soia in sostituzione del latte materno (la maggior parte dei latti artificiali è fatta con proteine della soia). Le linee guida in età pediatrica suggeriscono prudenza nel somministrare in età infantile prodotti a base di soia o da essa derivati.
5. Gli isoflavoni della soia interferirebbero anche con la funzionalità della tiroide, pertanto il consumo di soia e derivati deve essere molto moderato in caso di disfunzioni tiroidee (ipo- o iper-tiroidismo, tiroidite autoimmune, morbo di Hashimoto). 
I bambini svezzati e alimentati con formule a base di soia sono a rischio di sviluppare problemi a questa ghiandola. Interferendo con la tiroide, la soia potrebbe avere effetti anche sul rallentamento del metabolismo.
6. Le proteine della soia sono uno dei prodotti più allergenizzanti: i bambini esposti precocemente al consumo della soia (sottoforma di latte in polvere) hanno un maggiore rischio di sviluppare reazione immunologica avversa alla soia, che potrebbe estendersi ad altri tipi di legume.
7. Recenti studi hanno ipotizzato un ruolo dei prodotti a base di soia nello sviluppo della ADHD syndrome (sindrome da iperattività e deficit dell’attenzione) nei bambini: le linee guida pediatriche suggeriscono prudenza anche per questo motivo.

Gli ultimi motivi che mi spingono a sconsigliare soia e prodotti derivati sono derivati dalla tecnologia di produzione:

8. Il latte di soia (da cui derivano gli yogurt) è sottoposto ad alte temperature (almeno 80°) per poter inattivare gli enzimi che gli conferiscono un cattivo gusto; tali temperature denaturano le vitamine e sono responsabili di una perdita di minerali.
Al di là di questo, personalmente non posso concepire di fare colazione o macchiare il caffè con latte di legumi: berreste mai latte di lenticchie?
9. La maggior parte dei prodotti derivati dalla soia contengono una dose cospicua di additivi o grassi vegetali volti a migliorare il gusto di un alimento che -ammettiamolo- non è esattamente saporito ed invitante.

Per tutti i motivi che ho elencato io non consiglio la soia e i prodotti che ne derivano: motivazioni che vengono rafforzate anche da dubbi circa le lobby della soia. La soia non deve essere vista come un alimento miracoloso, in grado di donare salute e longevità: non è così. Esattamente come scrissi a proposito di latte e latticini, non ritengo che la soia sia adatta ad un consumo quotidiano, soprattutto nei bambini in età prepuberale. I prodotti della soia possono essere usati di tanto in tanto, dal momento che il consumo sporadico di un alimento -qualsiasi alimento- non desta alcun tipo di preoccupazione salutistica a lungo termine: è la dose che fa il veleno.
In un’ottica di consumo frequente (comunque non quotidiano) esistono dei prodotti derivati dalla soia che sono più salutari rispetto ad altri, e suscitano meno perplessità: sono i prodotti fermentati e germogliati (germogli, tempeh, miso e tamari), dal momento che fermentazione e germogliazione inattivano le sostanze antinutrienti. Suggerisco però di non fidarsi ciecamente di questi prodotti se derivati dall’industria (anche se biologica): i tempi di fermentazione e germogliazione sono molto lunghi; spesso per esigenze di produzione vengono utilizzati processi che permettono di dimezzare i tempi, a danno della qualità nutrizionale.

Bibliografia
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