Ormai i miei più assidui lettori lo sanno perfettamente: la maggior parte dei prodotti “integrali” in commercio sono quelli che io chiamo falsi integrali, ossia  prodotti che di integrale hanno solo il nome, per altro riportato in bella vista sull’etichetta. In realtà sono prodotti con farine raffinate a cui solo in seguito si aggiunge della crusca, per aumentarne la percentuale in fibra: grazie a questo parametro è possibile commercializzarli come integrali, ma capirete che è una cosa ben diversa rispetto all’usare farina veramente integrale.
Il successo degli alimenti integrali si deve all’abuso perpetrato dal marketing pubblicitario del messaggio salutistico associato a tali alimenti: gli studi scientifici che dimostrano che integrale è meglio che raffinato sono ormai innumerevoli; ma questi studi si riferiscono al cereale integrale in chicchi, non di certo ai vari crackers, grissini e biscotti falsamente integrali! Le multinazionali hanno ben pensato di distorcere il claim nutrizionale dell’integrale a proprio vantaggio, in modo da vendere a prezzo maggiorato prodotti che di sano non hanno nulla. Rientrano nella categoria anche i cornflakes per la prima colazione, i prodotti da forno, e purtroppo spesso anche il pane integrale: i panifici hanno più convenienza ad usare farina di grano tenero a cui poi aggiungono una componente fibrosa che non usare farina integrale, anche perché in questo modo ottengono un impasto che lievita in modo migliore. La fibra naturalmente contenuta nella farina integrale non agevola di certo la lievitazione, ed è per questo che il pane veramente integrale è meno soffice e meno leggero di quello che si trova in commercio nell’80% dei casi.
Ad essere veramente integrali sono i cereali in chicchi, preferibilmente di provenienza biologica per evitare che vengano trattati con pestici: orzo, riso integrale, farro, avena, miglio, segale; aggiungo poi anche la famiglia degli pseudo-cereali (grano saraceno, amaranto, quinoa).

Spesso nell’elenco di questi cereali ho citato anche il Kamut, non sapendo che si tratta di un prodotto… brevettato!
Esattamente come Nutella, Coca-Cola, Misura o Vitasnella, il termine “Kamut” indica un nome commerciale di fantasia: il grano antico con cui il Kamut è prodotto è conosciuto come Khorasan, dal nome dell’antica regione persiana dove sembrerebbe essere nato.
Dire Kamut® non è come dire “riso” o “orzo”; non è nemmeno come dire “riso Vialone nano” o “orzo mondato”: per fare un parallelismo di questo tipo, sarebbe come riferirsi al “riso Scotti®”. Come gli alimenti che troviamo sugli scaffali del supermercato il Kamut è infatti un marchio registrato (da qui il simbolo ®), un nome commerciale: chi vuole coltivare Kamut deve necessariamente comprare i semi dalla società che ne detiene il brevetto, ossia la statunitense Kamut International ltd. Il Kamut può essere coltivato solo in Montana (USA) e nelle province canadesi di Alberta e Saskatchewan; in Italia, come nel resto del mondo, può essere importato e macinato solo presso aziende autorizzate.
A onor del vero, un tipo di Khorasan non brevettato viene coltivato in piccole realtà agricole del sud Italia, in Irpinia e in certe zone dell’Abruzzo: si tratta della Saragolla, nome peraltro omonimo di un altro seme brevettato nel 2004, quindi anche in questo caso bisogna fare attenzione: se riporta il simbolo ® è il brevetto.
Ovviamente, tutti i prodotti derivati dal Kamut o dalla sua farina contengono un ingrediente di una multinazionale e dunque devono riportare in etichetta il marchio registrato: dal pane ai biscotti, dai grissini ai crackers.

Qualità nutrizionale superiore: vero o falso?
Dal punto di vista nutrizionale, si può dire che il Kamut abbia una maggiore quantità di proteine rispetto al grano comune (17% contro una media del 12%), e un profilo lipidico più ricco di grassi monoinsaturi e di polinsaturi (acido oleico, omega-3 e omega-6).

Il Kamut non contiene più più fibra, più minerali o più vitamine rispetto al grano comune: le differenze sono talmente minime da non essere significative. Qui di seguito trovate una tabella di confronto.


Spesso il messaggio pubblicitario tende ad associare il Kamut, in quanto “grano antico”, ad una migliore digeribilità e tollerabilità intestinale: velati riferimenti a glutine e celiachia, non suffragati da dati scientifici. Anzi: il Kamut contiene più glutine rispetto alla media del grano comune (15% contro 13%): questo rende la farina di Kamut più facilmente panificabile, poiché è proprio il glutine a conferire all’alveolatura dei prodotti da forno una maggiore solidità.

Le proprietà salutistiche che ormai nell’immaginario collettivo vengono ricondotte al Kamut sono in definitiva frutto di una ben orchestrata campagna di marketing, fatta di sottintesi e di pubblicità al limite del menzognero. Di vero ci può essere, al più, una migliore tollerabilità del Kamut da parte di chi soffre di lieve sensibilità al frumento comune e ai prodotti che ne derivano (pasta, pane, farine e prodotti da forno): questo perché si tratta di un grano che, sebbene brevettato, non ha subito la forte selezione che invece caratterizza altri tipi di frumento.
Per scrupolo, ribadisco comunque che i celiaci non possono consumare grano Kamut in quanto fonte di glutine.

Dopo essermi informata sull’origine del Kamut ho cambiato la mia opinione su di esso: si tratta di un monopolio, di una multinazionale che vende a un prezzo decisamente maggiorato un prodotto che non ha differenze significative rispetto al grano comune. Un prodotto che viene da oltreoceano (in barba al consiglio di consumare locale e consapevole!), e che purtroppo deve la sua fama alla campagna propagandistica più che ad un concreto effetto salutistico.