Approfitto dei pomeriggi di maternità per scrivere pensieri a ruota libera, fare qualche considerazione riguardo l’alimentazione e la professione di dietista.
Spero con questo mio intervento di potermi confrontare con voi lettori, e fare chiarezza circa alcuni dubbi e interrogativi che sicuramente frullano nella mente di un consumatore consapevole.

Dunque, tutto è nato da una chiacchierata con il mio ragazzo, sostanzialmente incentrata sul quesito:

Come è possibile che esistano tante evidenze scientifiche diverse in campo dietetico, l’una che contraddice l’altra? Come è possibile che ci sia chi predica il digiuno intermittente e chi i pasti frequenti, che ci sia un dibattito sulla salubrità di diete iperproteiche e parimenti di diete vegane, che alcune ricerche dimostrino la cancerogenicità di un determinato alimento e altre che ne esaltino le proprietà positive?

Capisco bene la confusione che regna, soprattutto quando chi cerca di capirci qualcosa nella vita quotidiana ricopre una professione distante anni luce dalla nutrizione: se io, come dietista, faccio fatica a diramare i nodi, figuriamoci chi fa l’avvocato o il poliziotto!

Gli studi scientifici
Tentare di dare una spiegazione univoca a conclusioni apparentemente opposte è impossibile; bisogna porsi su un orizzonte differente, ossia vedere il problema come se le soluzioni proposte non fossero altro che diverse possibilità, la cui efficacia e veridicità è in funzione di altri fattori.
Prendete come esempio i libri di una libreria: in base a che criterio sono ordinati? Ordine alfabetico degli autori, casa editrice, genere, età consigliata di lettura, anno di edizione… I criteri sono diversi: uno non è migliore dell’altro in termini assoluti; eppure, se state cercando un romanzo giallo troverete più efficace l’ordinamento per genere, mentre se state cercando l’opera omnia di Shakespeare vi troverete più comodi con l’ordinamento per autore.
In campo alimentare diverse teorie possono essere efficaci a seconda della persona (o del contesto) su cui si applicano: è per questo che, almeno apparentemente, funziona tutto e il contrario di tutto. 
Ovviamente ciò non implica che uno scienziato possa alzarsi un mattino e predicare la cancerogenicità dei ceci neri senesi o dei pomodori essiccati siciliani, aspettandosi di avere un seguito: le informazioni alimentari devono essere veicolate sulla base di studi scientifici di rilievo.

Sottolineo le ultime due parole: di rilievo. Non è sufficiente fare uno studio scientifico affinché questo possa influenzare le decisioni prese da governi o singoli individui in campo alimentare: a seconda dei criteri con cui uno studio viene condotto avrà credibilità maggiore o minore.
Ad esempio: riterreste credibile uno studio finanziato dalla Nestlè volto a dimostrare che gli zuccheri non sono nocivi per la salute? Non direi: ci sarebbe un vero e proprio conflitto di interesse sottostante che potrebbe in qualche modo pilotare i risultati; lo studio potrebbe concludere che “gli zuccheri, assunti in piccole quantità giornaliere nel contesto di una dieta bilanciata e di uno stile di vita attivo, non sono dannosi per la salute”. Nel momento in cui i risultati dello studio venissero trasmessi alla popolazione, nulla impedirebbe di omettere quanto scritto tra le due virgole e dire semplicemente che “gli zuccheri non sono dannosi per la salute”: non si direbbe il falso, giusto?
Ecco, questo è uno dei tanti modi in cui i risultati di uno studio scientifico possono essere travisati, o meglio: è uno dei modi con cui i risultati di uno studio scientifico possono essere rigirati a piacimento. 
In questo articolo avevo spiegato cosa distingue i vari studi scientifici, per capire quali siano veramente validi e quali invece siano di scarsa qualità. Ritengo che un professionista della nutrizione debba essere in grado di leggere in modo corretto gli studi, selezionando quelli validi e, soprattutto, leggendone il full-text: in tanti si limitano a leggere l’abstract (ossia il riassunto), senza approfondire come lo studio sia stato condotto, e pertanto perdendosi il fulcro dello studio stesso.

Fare tabula rasa
In merito agli studi scientifici esistono molti altri problemi che andrebbero chiariti prima di diffonderne i risultati; ritengo tuttavia che il problema più grande non abbia a che fare con lo studio in sé, quanto a chi li consulta e li diffonde: intendo dire che il presupposto con cui consultiamo lo studio stesso può, in un certo senso, influenzarne il senso.
Il più delle volte chi sta cercando dati per informarsi in campo nutrizionale non parte da una tabula rasa, ma ha un’opinione, per quanto vaga, che vorrebbe veder confermata. Se sto cercando supporti scientifici alla mia scelta di diventare vegetariano, è più facile che io cerchi le informazioni in studi volti ad esaltare le proprietà di una dieta vegetariana e a sottolineare i rischi del consumo di carne, e non in studi che, al contrario, dimostrino che la carne non è cancerogena e non fa male. Giusto? Se sto cercando una giustificazione per assecondare la mia irrefrenabile passione per il pesce crudo, andrò a sbandierare gli studi che dimostrano che l’abbattimento termico del pesce impedisce tossifenzioni, oppure controllerò i dati epidemiologici di lavande gastriche eseguite post-cenette in discutibili sushi-all-you-can-eat?

Ecco, diciamo che l’essere umano, per sua natura, pecca un pochino di mancanza di onestà intellettuale: è difficile cambiare opinione quando su di essa abbiamo strutturato le nostre abitudini e indirizzato il nostro modo di agire. Ehm – come in politica: sotto sotto possiamo anche ammettere che ci troviamo d’accordo con il partito opposto su certe argomentazioni, ma difenderemo a priori le nostre; ehm – come nel calcio: il rigore a nostro danno era sacrosanto, ma la colpa rimane dell’arbitro.
Forse, è ancora più difficile fare il passo oltre: rimanere della nostra convinzione, ma ammettere che le argomentazioni opposte sono fondate e lecite. Questo sarebbe il vero dialogo, il vero confronto, la vera mediazione; invece ci fossilizziamo a difendere ad ogni costo il nostro credo, e non andiamo oltre. Peccato, un vero peccato (e non solo in campo alimentare).

Rimaniamo però a parlare di dieta, senza filosofeggiare.
Siamo giunti ad individuare almeno due problemi riguardanti le informazioni attraverso cui orientiamo le nostre scelte alimentari: da una parte, bisognerebbe capire se i dati scientifici su cui si basano siano di alta qualità; dall’altra, dovremmo avere l’accortezza di approfondire anche le tesi opposte alle nostre, per avere un quadro completo dell’argomento e arrivare ad una conclusione coerente.

Mettere in pratica
Oltre a questo, dobbiamo poi dare una valutazione empirica, ossia basata sull’esperienza e non sulla teoria scientifica. Non me ne voglia chi riconduce tutto a grafici e numeri, ma si è davvero in grado di fare la differenza solo nel momento in cui quei dati vengono tradotti in un comportamento, in un’abitudine: gli studi scientifici sono condotti a condizioni ideali, difficilmente replicabili nella quotidianità. Quindi, ecco che la traduzione dalla teoria alla pratica diventa indispensabile: per altro, solo in questo modo potremo capire se quella particolare abitudine dietetica sia veramente adatta alla nostra condizione.

Eh sì: perché a livello teorico e di laboratorio tutto può essere dimostrabile, ma poi funziona *per noi*?

Ognuno di noi è un essere unico e irripetibile, con proprie abitudini, necessità, fabbisogni, e con una propria personale risposta metabolico-endocrina agli stimoli alimentari.
Quello che è adatto a me può non essere adatto alla mia migliore amica, a mia mamma o mia zia.
Ad esempio, gli studi dimostrano che una buona colazione al mattino pare (pare!) essere la conditio sine qua non per una giornata vibrante di energie, senza appetito precoce e con garanzia di una regolarità nel rilascio di insulina. Eppure, esistono persone (anzi, intere popolazioni) che prima di inserire il primo pasto quotidiano hanno già camminato qualche chilometro e lavorato qualche ora, mantenendo sorprendentemente alta la produttività e la concentrazione: gli scienziati, incuriositi, fanno degli studi, e dimostrano che tutto sommato la colazione non è così indispensabile e che a volte fa addirittura meglio saltarla.
Ora ci troviamo di fronte al dilemma: l’apparente contraddizione è dovuta ad un miglioramento delle tecniche di indagine scientifica, tale per cui gli studi più recenti sono quelli più accreditati e ben condotti, oppure si tratta effettivamente di due conclusioni opposte e parimenti valide?
Ve lo dico io: la risposta esatta è la seconda. Perché? Perché esistono persone che non carburano senza colazione, e persone che se mangiano al mattino risultano un po’ più appannate e rallentate, così come esistono persone che rendono il massimo dalle 18 in poi e persone a cui non pesa svegliarsi alle 5 del mattino per studiare o fare attività fisica.
Ecco cosa intendo quando dico che è indispensabile passare dalla teoria alla pratica: non dobbiamo avere la pretesa di trovare la dieta perfetta, ma dobbiamo tentare di capire cosa sia il meglio per noi, e per i nostri obiettivi.

Focus on…
Giusto, parliamo di obiettivi. 
Quali sono i motivi che ci spingono a reperire informazioni e cambiare il nostro modo di mangiare? Cosa stiamo cercando dal nostro cambio di dieta?
Le motivazioni possono essere le più disparate: dimagrire e/o mirare ad una ricomposizione corporea (no, le due cose non sempre coincidono…); mirare ad un incremento della concentrazione; azzerare i sintomi di un colon irritabile/emicrania/dermatite/…; migliorare il manifestarsi di una patologia autoimmune; regolarizzare il ciclo; ottimizzare la nostra alimentazione per la fertilità o una gravidanza in corso; prevenire malattie neurodegenerative; proteggerci il più possibile da una familiarità per tumore al seno o diabete o ipertensione. E così via.
A seconda del nostro obiettivo principale, la nostra alimentazione prenderà una certa direzione; con il tempo, ci potremmo accorgere che – studi alla mano – questa stessa alimentazione potrebbe essere incompatibile con altri aspetti della vita di cui, pian piano, cominciamo ad interessarci.
L’esempio classico è quello del dimagrimento: per riassumere (banalizzando), si può dire che per dimagrire dovremmo introdurre meno calorie, più proteine, pochi grassi e più fibra atta a saziare a lungo. Indicazioni che, quando perpetrare per mesi e mesi, portano a carenze vitaminiche, gonfiore addominale, squilibri nel ciclo (per la donna), perdita di libido e di concentrazione mentale, addirittura rischio di invecchiamento precoce.
Altro esempio potrebbe essere quello di una dieta adottata per incrementare la massa muscolare, inevitabilmente ricca di proteine molto magre come pollo, merluzzo, bresaola, e -di nuovo inevitabilmente– antitetica a quella che è una sostenibilità ambientale delle nostre scelte alimentari.

Sostenibilità dietetica
Io credo fermamente che il fine cui si basa il nostro habitus dietetico debba essere inserito in una prospettiva temporale del lungo termine: le nostre scelte alimentari dovrebbero essere sostenibili per una vita intera.
Per ‘sostenibile’ in questo caso vado a delineare diversi campi:
Sostenibilità organizzativa; la nostra alimentazione dovrebbe essere pratica e fruibile, senza costringerci ore davanti ai fornelli e senza farci rinunciare a gite in montagna, uscite con gli amici e viaggi di piacere (forse per alcuni sembrerà un’ovvietà, ma non sempre è così: conosco decine di persone che rinunciano a un aperitivo il sabato sera perché “non rientra nella mia dieta” o che temono di viaggiare perché “potrebbero non trovare cibo biologico”).
Sostenibilità psicologica; quante volte le nostre scelte alimentari condizionano o hanno condizionato il nostro umore, soprattutto in caso di diete dimagranti restrittive? Ma non è l’unico caso: a volte anche scelte che ci siamo auto-imposti per eccesso di salutismo cominciano a starci strette e a predisporci ad abbuffate compulsive…
Sostenibilità economica; la nostra alimentazione non deve essere costosa, pur rimanendo salutare e naturale: sono fortunatamente passati i tempi in cui i prodotti biologici costavano il doppio rispetto a quelli tradizionali, ma per trovare un concreto guadagno dobbiamo fare uno sforzo maggiore nella ricerca. Non è sufficiente entrare nel primo Natura Sì e riempire il carrello: in questo caso vi assicuro che lasciare in cassa metà stipendio è un’ipotesi tutt’altro che remota. Dobbiamo attivarci a cercare produttori e aziende agricole vicino a noi, o che offrano vendite online/servizio di consegna a domicilio: saltando gli intermediari, si risparmia. Come ho detto più e più volte, all’inizio può sembrare complicato perché perdiamo molto tempo nella ricerca del posto che fa per noi, ma una volta che abbiamo i nostri 4-5 negozi di riferimento la spesa diventerà una routine come un’altra.

Attenzione! La sostenibilità economica dell’alimentazione non significa *risparmio* economico: significa pagare il giusto quello che mangiamo. Quando acquistate sottocosto prodotti provenienti da Cile, Argentina o Spagna (oppure, tristemente, da molti terrenti fertili del Sud Italia e dell’Emilia-Romagna), state di fatto dando il vostro consenso allo sfruttamento di popolazioni, locali e non, che vengono pressoché schiavizzate nei campi di coltivazione, sottoposti a ritmi di lavoro disumani e costretti a inalare agenti tossici spruzzati sulle colture stesse. Il prezzo di un prodotto non deve essere “il più basso possibile”, ma “il giusto” in relazione al lavoro che ci sta dietro.

Sostenibilità ambientale; smettiamo di porci su schieramenti opposti: la dieta vegetariana non è più sostenibile di un’onnivora, nonostante in tanti insistano a dire che “ci vuole meno acqua a irrigare un campo di mais che non a nutrire 10 capi di bestiame”. Le cose non stanno proprio così: ciò che fa la differenza è lo sfruttamento delle risorse a nostra disposizione: trovate corretto che centinaia di ettari di fertile terreno brasiliano siano coltivati a soia, monocoltura in grado di impoverire i terreni nell’arco di una decade o meno? Lo sapete che la maggior parte della soia e del mais dell’intero mondo sono destinati a nutrire maiali e manzi americani cresciuti nei CAFO (unità di allevamento intensivo, in cui l’animale non vede mai la luce del sole), e che solo una minoranza (gli scarti, diremmo) vengono destinati al consumo umano? Ci rendiamo conto che la carne “biologica” non è meglio di quella tradizionale, se l’animale viene nutrito con la stessa tipologia di mangime, con l’unica differenza che tale mangime è “biologico”? Nei prodotti che consumiamo dobbiamo cercare il più possibile una sostenibilità di coltivazione o allevamento che, almeno a mio parere, si riassume con la soddisfazione di quattro criteri:
1) Km0 (o comunque prodotti che non implichino lo spostamento extracontinentale, tale da creare inquinamento ambientale notevole);
2) Uso di prodotti naturali per i mangimi animali e per la crescita delle piante (niente antibiotici usati come prevenzione per le bestie, ed un utilizzo oculato di pesticidi e fertilizzanti per le piante, senza agenti tossici);
3) Minor raffinazione possibile dei prodotti (abbiamo davvero bisogno dei “trasformati”, vale a dire merendine, snack, patè e tutto ciò che comprende una fiorente industria alimentare, packaging e marketing, con l’inquinamento derivante?);
4) Varietà, varietà, varietà (maggiore è la varietà di mele, pomodori, lenticchie, kiwi, fragole, melanzane a nostra disposizione, maggiore è la conservazione della biodiversità).
Sostenibilità salutare; last but not least, il modello alimentare da noi prescelto deve garantirci longevità e salute. A che serve avere un fisico super tonico, se al primo raffreddore perdiamo due kg di massa e a 40 anni ci rendiamo conto di soffrire di colite e acne per via di tutte le Whey usate? A che serve mangiare un chilo di verdure al giorno, se alla lunga questo ci causa meteorismo e gonfiore addominale? A che serve sostituire lo zucchero con dolcificanti artificiali, se ci rendiamo conto che questo scatena lancinanti emicranie? 
Il modello dietetico che scegliamo deve permetterci di invecchiare tenendo bassi i fattori di rischio per quelle malattie che, ormai è certo (e qui torniamo al discorso sugli studi scientifici), sono strettamente correlate al modo in cui ci alimentiamo. Anche grazie a quello che mettiamo in tavola (e, prima ancora, al modo in cui conduciamo i nostri acquisti) possiamo arrivare a 70-80 anni senza prendere alcun farmaco, nella piena autosufficienza motoria e cognitiva, e mantenendo il gusto delle cose buone.

L’ultimo punto mi dà la possibilità di aprire una doppia parentesi: un inciso sulla dieta “terapeutica” e uno sulla dieta “perfetta”.

La terapia che passa dall’alimentazione

In qualsiasi libreria, il settore “Salute” è un proliferare di titoloni di diete volte a “guarire da…”: dalla psoriasi, dal colon irritabile, dal diabete, dall’ipertensione. Cosa c’è di vero in queste diete?
*Dipende*.
A volte si tratta di ipotesi balzane e infondate, che fanno danni a decine di persone, e per le quali bisognerebbe rivedere il concetto di “libertà d’espressione”.
Altre volte sono diete indubbiamente efficaci, basate sui famosi studi scientifici di rilievo di cui parlavamo prima. Purtroppo, questo genere di libri ha la forte limitazione di dover attirare il maggior numero di lettori possibili e, pertanto, di essere alquanto superficiale nella trasmissione delle informazioni: la persona malata comincia a escludere o includere certi alimenti solo perché indicati nella lista del “vietato/permesso”, ma senza realmente comprendere le motivazioni che stanno alla base. Quest’aspetto è invece fondamentale per poter adottare una dieta terapeutica: è la stessa differenza che esiste tra insegnare e imparare a memoria (dice il saggio, “dai un pesce a un uomo e lo nutritrai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”). Le diete terapeutiche dovrebbero essere studiate e poi messe in pratica da dietisti e nutrizionisti, ossia da personale qualificato che ha sostenuto esami di Biochimica, Farmacologia, Patologia clinica e Dietetica, e che pertanto è in grado di interpretare e gestire correttamente le indicazioni (o almeno, dovrebbe esserlo…).
Al di là di questo, le diete terapeutiche vanno contestualizzate: nella maggior parte dei casi (se non nella totalità) si tratta di diete “a tempo”, ossia volte a fermare e far regredire i sintomi della malattia, ma difficilmente devono essere adottate per tutta la vita. Devono essere intese come un vero e proprio farmaco: prendete la pastiglia per l’emicrania ogni giorno della vostra esistenza, o solo quando avete mal di testa?

Le diete terapeutiche fanno parte della prevenzione secondaria, vale a dire un insieme di provvedimenti che si attivano quando la malattia è un dato di fatto (*ho* il diabete, *ho* la pressione alta…); al contrario, la dieta intesa come stile di vita salubre e come routine di alimentazione è una prevenzione primaria, atta a prevenire l’insorgenza di patologie e a mantenere lo stato di salute (*prevengo* il diabete, *prevengo* la pressione alta). 
Le due cose a volte coincidono, a volte no.
Ad esempio, una delle migliori diete utili al riassestamento del benessere intestinale ha come basi fondanti il digiuno e la scarsa introduzione di fibra vegetale: indubbiamente terapeutica per fermare spasmi di colite, gonfiore, dissenteria e anche problemi gastrici, non è sostenibile sul lungo termine. Altro esempio: è stato ampiamente dimostrato che una dieta stile-paleo (info qui e qui) è più efficace della classica mediterranea nella regressione del diabete tipo II; tuttavia, alla lunga potrebbe rivelarsi fin troppo povera di carboidrati, tale da ledere la funzionalità tiroidea e il benessere sessuale.
Le diete terapeutiche vanno pertanto prese con le pinze: non solo devono essere applicate da chi di competenza, ma devono essere seguite per un periodo di tempo tale da essere risolutive per la malattia in questione, ma non lesive su altri distretti corporei o funzioni organiche. Quest’indicazione non esclude che, per certi sintomi, si possa continuare a mettere in pratica per tutta la vita *alcuni* aspetti della dieta terapeutica: ad esempio, chi soffre di endometriosi o psoriasi dovrebbe continuare a tenere escluso il glutine; chi ha problemi di dermatite o acne è bene che non esageri con i latticini; chi soffre di ipotiroidismo si avvantaggia di una restrizione ciclica dei carboidrati, e così via.

La dieta “perfetta”

Dopo tutto quello che ho scritto, esiste l’alimentazione “perfetta”, quella che va bene per chiunque e che non procura danno per la salute?
A dire il vero, no.
Esistono le Linee Guida per un’alimentazione prudente, che potete trovare qui. Grossomodo, si tratta di adottare i principi di una dieta Mediterranea: frutta e verdura di stagione, cereali integrali, grassi buoni da olio e frutta secca, pesce e carne bianca, uno sfizio di tanto in tanto. 
Queste indicazioni vanno intese come una guida che il Minestero della Salute offre al cittadino: riassumono in termini pratici quello che gli studi scientifici più accreditati e recenti hanno decretato non essere nocivo, e avere un certo margine sulla prevenzione delle malattie metaboliche più diffuse (ipertensione, diabete, ipercolesterolemia). Come scritto poc’anzi, si tratta di una “dieta prudenziale”, il classico “per stare in salute basta mangiare poco, ma di tutto”, con il suo corollario “niente fa male se non è in eccesso”. 
Per dovere nei confronti del cittadino, è fondamentale che le istituzioni ufficiali abbiano una linea guida comune, che non confonda, e che non crei danno alla salute. E’ per questo motivo che indicazioni quali “usa poco sale”, “non mangiare più di due uova a settimana” e “preferisci la pasta integrale” sono diventati mantra noti a chiunque. Si chiama educazione alimentare: si devono trasmettere messaggi concisi e comprensibili, senza fronzoli, senza se e senza ma.

*Tuttavia*…

Tuttavia in questo sito vi ho più volte dimostrato che spesso è necessario andare oltre le Linee Guida per poter trovare concreto beneficio verso sintomi debilitanti: è il caso della dieta per patologie autoimmuni, quella per ipotiroidismo, quella per PCOS, quella per la fertilità. Ma anche senza entrare nel patologico, è ormai noto che certi precetti triti e ritriti non sono altro che falsità, come ad esempio la convinzione che le uova facciano alzare il colesterolo. 
Ma allora, perché il Ministero della Salute non “svecchia” un po’ le Linee Guida? Onestamente, non ne ho idea: forse perché rimangiarsi la parola data non è propriamente cosa da poco, o forse perché non si potrebbe più riassumere indicazioni pratiche in pochi commenti concisi, ma bisognerebbe spiegare un po’ più a fondo la questione, perdendo l’interesse del cittadino.
In fondo, ammettetelo: avete letto per filo e per segno tutto quello che ho scritto qui, o vi siete fatti catturare dalle parole in grassetto…? Il calo dell’attenzione nel seguire un discorso che duri più di un tweet è uno dei grandi crucci che la pedagogia dovrà affrontare, prima o poi.

Di nuovo, non si tratta di trovare *LA* dieta perfetta, ma la dieta perfetta *PER TE*, tenendo conto di tutto quanto è stato trattato in questo articolo oggi: il fondamento su basi scientifiche, i vari gradi di sostenibilità, e la capacità di capire quando e come inserire parentesi di alimentazione propriamente terapeutica.

*Tuttavia*… 

Tuttavia, se proprio dovessi stendere un decalogo di indicazioni bene o male valide per tutti, darei le seguenti:
– Sopra ogni altra cosa, fare attenzione alla qualità delle materie prime: non trattate, di stagione, possibilmente nel rispetto dell’ambiente e del produttore.
Il meno possibile prodotti industrializzati, il più possibile materie prime semplici: meno biscotti, merendine, cornflakes, sughi pronti, e più cereali (chicchi, fiocchi, farine macinate a pietra), verdure, insaporitori (olive, acciughine, capperi)…
– Introdurre con una frequenza adeguata fonti proteiche di alta qualità e biodisponibilità: uova, pesce e carne; se si è sportivi, tale introduzione dovrebbe essere quotidiana, altrimenti si può ipotizzare un consumo tri- o quadri-settimanale di proteine di origine animale: da aumentare in periodi di forte stress, stanchezza, apatia o in caso di disequilibri endocrino-metabolici.
Ciclizzare le fonti di carboidrati, ossia variare la quantità di amidi complessi introdotta quotidianamente: la frequenza e l’entità della ciclizzazione dipende dallo sport praticato e dal proprio stato di salute.
– Scegliere le fonti di carboidrati in base al proprio stato di salute e ai propri obiettivi, valutando se sia opportuno ridurre o escludere fonti di glutine e/o intervallare periodi in cui non si consumano granaglie (cereali) e farinacei.
– Non far mai mancare fonti di grasso, preferendo quelli non termolabili e non termosensibili: olio extravergine di buona qualità, burro di buona qualità, tuorlo delle uova poco cotto. Ridurre, senza escludere, fonti di grasso più fragili ai condizionamenti ambientali: frutta secca e semi. Eliminare fonti di grassi industriali: margarine, grassi trans, grassi vegetali come olio di mais/riso/colza/girasole.
– Per quanto riguarda frutta e verdura, scegliere prodotti secondo la stagionalità, alternando i metodi di cottura (cruda, al vapore, spadellata, al forno…). Non esagerare con le quantità: quando mangiamo troppa fibra vegetale siamo soggetti a costipazione, flatulenza, meteorismo, gonfiore e ritenzione di liquidi.

Ecco. Nulla di più.
Ci sarebbero innumerevoli parentesi da aprire per ciascuna di queste indicazioni, ma si tratta di indicazioni che potrebbero andar bene per alcuni e male per altri: i punti che avete appena letto non sono da intendersi come sufficienti ed esaustivi; sono semplicemente uno schema, una traccia su cui poi ognuno deve costruire la propria alimentazione, in base alle proprie esigenze, necessità, ai propri fabbisogni e gusti.

Infine…
Prima di concludere questo lunghissimo articolo, ci tengo ad evidenziare un fattore cruciale: la dieta non è che *una* delle determinanti della vostra salute, forse quella più importante ma non certamente l’unica. 
Quando leggiamo studi, ricerche, nuove scoperte in ambito alimentare, non dovremmo mai dimenticare che i risultati ottenuti vanno poi contestualizzati in una quotidianità che è fatta anche di aria che respiriamo (viviamo a Milano o in remoto paese della Val d’Aosta?), pensieri che formuliamo (abbiamo crucci o stiamo attraversando un periodo felice?), indole caratteriale (bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?), esposizione solare (l’importanza dell’attivazione della vitamina D sui meccanismi organici!), musica che ascoltiamo (il frastuono del traffico, un concerto rock, jazz o musica classica?), e via dicendo.
Per ciascuno di questi punti esiste una certa mole di studi in grado di dimostrare, di volta in volta, la nocività o la salubrità.
In tutto questo, senza mai trascurare l’importanza del fattore genetico: vero è che la genetica non è una spada di Damocle, e che i fattori ambientali (dieta, smog, sport…) sono in grado di esercitare cambiamenti epigenetici in grado di accendere o spegnere i nostri geni, ma… Ma la base genetica rimane: il nostro “scheletro” di predisposizione a salute e malattie.

Quindi, meglio non illudersi che la dieta curi qualsiasi cosa, o prevenga qualsiasi malattia: nel momento in cui cerchiamo la salute, diramiamo la nostra ricerca su tutti i percorsi che ci vengono in mente, e non focalizziamoci solo su due di essi. Curiamo la nostra alimentazione e facciamo attività fisica, ma non trascuriamo gli hobby, i legami affettivi, i momenti di ozio, la cultura, e ogni singolo stimolo verso cui il nostro intero essere sia ricettivo.

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