“Hai rapporto burrascoso con il cibo? Usa il cervello!”
Potrebbe sembrare uno slogan pubblicitario, non trovate?
Invece è semplicemente un consiglio che ci viene dalle Neuroscienze.

Come sapete sono una dietista un po’ atipica: cerco di prendere spunti multidisciplinari per arricchire il mio bagaglio professionale. So, sapete, sappiamo, che per l’uomo il cibo non è mero “nutrimento”, come accade invece per gli animali: mangiamo anche quando non abbiamo fame, mangiamo per convivialità, amore, rabbia, frustrazione, gola. Una dieta, per quanto perfetta possa essere, da sola non è mai sufficiente: l’equilibrio dei nutrienti di per sé è futile, se non si accompagna a un equilibrio nel rapporto con il cibo (e con il proprio corpo). 
E’ per questo motivo che la cura di un DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare) deve prevedere la collaborazione tra esperti: dietista, psicologo e medico sono fondamentali, ma sarebbe interessante poter cooperare anche con altre figure professionali. Tra esse ritengo che una delle più valide sarebbe un neuroscienziato, e no, non lo dico perché sono di parte, avendo un fratello laureato in Neuroscienze! Lo dico perché ho avuto modo di leggere interessanti libri di Neuroscienze e Scienze Cognitive, i cui contenuti mi hanno dato ricchi spunti per la mia professione. Mi riferisco, ad esempio, ai saggi di D.Goleman sull’intelligenza emotiva, oppure alle pubblicazioni di N.Doidge sulla plasticità cerebrale.
Partendo da questi input, ho pensato che sarebbe interessante, di tanto in tanto, pubblicare qualche “pillola di Neuroscienza” che abbia un’utilità pratica nel campo dell’alimentazione. 
Spero di cuore che mio fratello, leggendo queste righe, non pensi che io stia dicendo blasfemie e non mi rinneghi!

Partiamo oggi prendendo in considerazione i condizionamenti associativi, ossia le associazioni neuronali di diverse aree cerebrali. 
No, aspettate a chiudere la pagina: ve lo spiego in modo molto semplice.
Esistono aree cerebrali che si attivano quando facciamo qualcosa, ad esempio quando mangiamo. Ed esistono aree cerebrali che si attivano quando proviamo qualcosa, ad esempio rabbia. Le due cose sembrerebbero essere del tutto svincolate l’una dall’altra, e in effetti è proprio così. Tuttavia gli scienziati hanno dimostrato che quando due aree deputate a funzioni diverse sono attivate contemporaneamente, iniziano a stabilire un collegamento reciproco: in Psicologia questo fenomeno è detto condizionamento associativo operante, e può interessare i più disparati comportamenti, non solo quelli alimentari.
Da un punto di vista neuroscientifico vengono approfonditi passaggi intermedi. 
Quando una persona è in ansia, preoccupata, triste o rabbiosa, il suo corpo inizia a mettere in circolo ormoni dello stress, che abbassano i livelli di altri ormoni (dopamina e serotonina), che normalmente ci regalano uno “steady state” di equilibrio e normalità. Se dopamina e serotonina sono basse il nostro equilibrio psichico è perturbato, e noi saremo indotti a intraprendere azioni piacevoli che aumentino nuovamente la produzione delle due molecole.

Esistono diversi modi di rialzare i livello di serotonina e dopamina, tra cui *anche* mangiare carboidrati (dolci, cioccolato).
 La dopamina si alza anche con l’attività fisica o nel momento in cui raggiungiamo un obiettivo che ci renda orgogliosi di noi stessi. La serotonina aumenta anche con la respirazione profonda, lo yoga e… i baci e gli abbracci!
Più rispondiamo agli ormoni dello stress e alle emozioni negative facendo sport o meditando, più consolideremo quella nostra risposta cognitiva. Ma ogni volta che rispondiamo allo stress mangiando, il sistema limbico rafforza il legame tra bassi livelli di serotonina e azioni che portano a mangiare cioccolato, tale per cui si arriverà ad un certo punto in cui le due aree cerebrali non potranno che accendersi contemporaneamente. Saremo, nostro malgrado, intrappolati in un circolo vizioso.

Questo lo possiamo notare anche per altre banalità: vi è mai capitato di sentire appetito perché vi siete resi conto che l’orologio segna le 13.00? C’è un legame associativo tra orario del pasto e appetito. Oppure, avete per caso un cane che rizza le orecchie quando vi vede prendere il guinzaglio, anche se non è ora della passeggiata? Altro legame associativo. Vi potrei fare numerosissimi esempi, ma penso che questi siano sufficienti a farvi capire cosa sia il legame associativo.

Bene, se l’articolo si concludesse qui non vi avrei dato alcun suggerimento pratico: mi sarei limitata a esplicitare con termini scientifici qualcosa di cui molti di voi si sono già resi conto.
Il passo successivo è quello che ci viene consentito dalla neuroplasticità.

Le connessioni neuronali non sono immutabili: sono fluide, sono modificabili attraverso il principio “use it or lose it”. Usalo o perdilo: è un vero e proprio allenamento. Se esercitate un certo tipo di legame associativo, esso si consoliderà; se non lo esercitate più, lo perderete.

Se vi sforzate coscientemente di non cadere al richiamo del cibo quando sentite emozioni negative di rabbia, tristezza, solitudine o noia non state semplicemente “evitando un’abbuffata”, ma state indebolendo un legame associativo. Più reiterate questa vostra scelta (ossia, quella di non mangiare in risposta alle emozioni disturbanti), più vi avvicinate alla disattivazione completa del legame.

Bisogna essere parte attiva e collaborativa al cambiamento, perché una sinapsi tristezza-cioccolato o rabbia-abbuffata allenata da anni sarà dura a disattivarsi: non bisogna darsi per vinti, e bisogna essere fiduciosi.

Questo vale per tutti i legami associativi: rimanendo nell’ambito dei DCA c’è chi risponde al malessere interiore vomitando o digiunando. Anche questi sono legami associativi.
Andando oltre, potremmo estendere questo principio anche ad episodi di autolesionismo o ad attacchi immotivati d’ira.

Il primo passo da compiere è il più arduo: riconoscere l’emozione che sta alla base di un comportamento alimentare dannoso. Si chiama rabbia, tristezza, ira, frustrazione? Diamogli un nome, individuiamo a cosa associamo la nostra assunzione incontrollata di cibo (o, all’opposto, il nostro rigido controllo di esso).
Secondo passo
, altro step difficoltoso. Troviamo *un’altra* associazione comportamentale, stavolta positiva, con la quale affrontare l’emozione negativa. Dobbiamo trovare quest’alternativa *prima* di trovarci in difficoltà: in un momento in cui siamo sereni, facciamo una lista di 2-3 cose da fare quando il problema si presenta. Metterci lo smalto alle unghie? Dedicarci a un album di fotografie? Scrivere un diario? Acqua fredda sui polsi? Dev’essere qualcosa di semplice, a cui attingere immediatamente. E che ci faccia star bene, chiaramente.
 Questo passo è difficile anche perché non dobbiamo cadere da un comportamento deleterio ad un altro: se sostituiamo il “cioccolato” con lo “shopping online” non ne avremo tratto molto vantaggio… Per altro, questo è il motivo per cui sia così facile cadere da un disturbo di dipendenza ad un altro: sostituire l’ipercontrollo o le abbuffate con lo sport ossessivo, o la sigaretta con il caffè.
Terzo passo. Facciamo scattare un campanello d’allarme ogni volta che siamo in una situazione a rischio: quando ci troviamo in una situazione in grado di sollecitare un’emozione negativa, non lasciamoci naufragare in essa, ma riconosciamola. Chiamiamola con il suo nome: “sono triste. Sono in ansia. Sono arrabbiato”. 
A questo punto, mettiamo in atto il comportamento che abbiamo deciso essere sostitutivo al cibo, e *obblighiamoci* ad eseguirlo: ve l’ho detto, la sinapsi emozione-cibo non si disattiva magicamente, ci vogliono mesi di disuso prima che le due aree cerebrali non si attivino contemporaneamente, com’erano invece abituate a fare. E’ qui che entra in gioco la nostra volontà: nel voler disattivare la connessione. E’ molto più di un semplice “resistere” o “avere il controllo”: quel tipo di volontà è inutile, se non si comprende in che modo poterla convergere a scopo produttivo e fertile.

Non trascuriamo che la sinapsi è a doppio senso, e questo lo sa bene chi soffre di DCA o di rapporto conflittuale con il cibo: alcuni cibi (pizza, patatine, dolci…) vengono accuratamente evitati per la paura di non saperli gestire, dal momento che in genere vengono consumati solo durante le abbuffate. I biscotti in risposta alla tristezza, e i biscotti che generano tristezza.

Il cibo comincia a caricarsi di un “significato emotivo” attribuito da noi stessi. Come scioglierlo da tale fardello? Evitarlo non farebbe altro che rafforzare il legame (“lo evito perché se lo mangio chissà cosa succede”: una profezia che si autoadempie). Il segreto sta nell’associare il cibo che ci siamo auto-vietati a situazioni piacevoli e di svago, cosicché cominci ad attivarsi una sinapsi (ossia una connessione neuronale) con un sentimento positivo: quando siamo a cena con il fidanzato concediamoci il nostro dolce preferito, ma evitiamolo se abbiamo appena litigato con lui. Creiamo un’abitudine familiare del sabato sera, dove mangiare insieme la pizza e vedere un film. Quando usciamo con la migliore amica a fare shopping, fermiamoci a prendere un gelato con lei. 
Se siamo costanti nel ri-abituarci, ecco che cominceremo a conservare solo ricordi positivi associati a quel cibo che a lungo ci ha fatto paura, e che comincerà a darci vibrazioni positive anziché negative.
Tra parentesi, questo è il motivo per il quale probabilmente i vostri figli mangiano volentieri gli spinaci quando vanno a casa dell’amichetto/a, ma si rifiutano di mangiarli quando sono a tavola con voi, anche se li avete cucinati allo stesso modo o addirittura anche se gli spinaci sono proprio quelli che vi ha dato la mamma dell’amichetto/a! 
Gli spinaci “della mamma di Luca” sono stati mangiati dopo un pomeriggio di giochi con l’amico… Potrebbero forse avere un brutto sapore?
Le sinapsi dei bambini sono un mondo tutto nuovo, sapete? Iniziate proprio voi genitori il loro rafforzamento: capite la differenza che potete determinare se sedate i sui capricci e i suoi pianti con una merendina piuttosto che giocando con loro?