Nell’ultimo articolo vi avevo anticipato che avrei presto parlato di alimentazione per “risolvere” condizioni di amenorrea.
Scrivere un articolo in merito all’alimentazione corretta in caso di amenorrea è veramente arduo, perché il rischio di venire fraintesa o malinterpretata è veramente alto. Tuttavia ci proverò, perché è solo attraverso l’informazione che si riesce a diventare parte attiva di una terapia.

Le cause che possono portare all’amenorrea sono diverse:
– Difetti anatomici dell’apparato riproduttivo femminile
– Insufficienza ovarica
– Problematiche genetiche (come la sindrome di Turner o l’emocromatosi ereditaria)
– Disfunzioni endocrine (derivante da sindrome da ovaio policistico, iperprolattinemia e altre)
– Uso di psicoformaci o di oppicei
– Amenorrea ipotalamica, di cui abbiamo parlato settimana scorsa
L’alimentazione può agire solo su alcune tipologie di amenorrea: con il cibo non è possibile sbloccare un’amenorrea causata da difetti anatomici, insufficienza ovarica o genetica. E’ invece possibile fare molto quando l’amenorrea è connessa a PCOS (in questo caso è bene adottare il protocollo per sindrome da ovaio policistico descritto nel mio ebook, o altri affini) o quando si tratta di amenorrea ipotalamica.

Come abbiamo visto nel precedente articolo, l’amenorrea ipotalamica nasce quasi sempre da stress psicofisico, in particolare riferito a diete restrittive (talvolta alternate con periodi di abbuffate e binge) e/o sport eccessivo. Queste due variabili portano inevitabilmente ad avere carenze di micro e macronutrienti, che mettono in allerta un sistema endocrino già piegato dallo stress. 
Le carenze più frequenti da trovare sono quelle di vitamina D, vitamina B12, zinco, ferro (nello specifico ferritina bassa). Ne avevo parlato in quest’altro articolo, dove avevo spiegato perché tali carenze possono trascinarsi anche a distanza di anni dalla guarigione dal DCA. 
Una donna con amenorrea ipotalamica dovrebbe controllare tali valori nel sangue, ed integrare con l’aiuto del proprio nutrizionista anche qualora la carenza non fosse conclamata, ma i valori fossero vicini al limite inferiore.

Per quanto riguarda l’alimentazione in sé e per sé non è particolarmente difficile da strutturare: la dieta deve essere studiata per permettere alla paziente di raggiungere il fabbisogno calorico e di macronutrienti, né più né meno.
Facile a dirsi, ma non a farsi. Vediamo nello specifico di quali fabbisogni stiamo parlando.

Calorie
E’ fondamentale che la dieta sia normocalorica: la paziente in amenorrea ipotalamica non deve dimagrire, neppure qualora ci fossero effettivamente alcuni chili da perdere (diverso è il discorso dell’amenorrea derivata da PCOS). 
Ogni fluttuazione al ribasso del grasso corporeo è un allarme per il sistema endocrino, che rallenta la produzione ormonale e ferma gli ormoni sessuali: il dimagrimento deve essere secondario alla ripresa del buon funzionamento di ipotalamo e ovaie, ovvero si prenderà in considerazione solo quando il ciclo tornerà ad essere presente.
Sottolineo che la perdita di peso dovrà essere intrapresa solo qualora sia necessaria: se la paziente è normopeso sarebbe sciocco farle perdere peso per assecondare un suo desiderio estetico, poiché questo la porrebbe di nuovo a rischio di amenorrea; qualora ci siano insoddisfazioni legate all’immagine corporea (addome gonfio, disequilibrio nella distribuzione del grasso, ritenzione di liquidi…) si deve intervenire in altro modo e con altri protocolli dietoterapici, non con il dimagrimento.

Molto spesso la paziente con amenorrea ipotalamica associata a DCA o cattivo rapporto con il cibo ha un’alimentazione fin troppo restrittiva, rigidamente controllata nella varietà di cibo e/o nel conteggio calorico. Se la paziente è sottopeso la dieta deve pian piano diventare ipercalorica per garantire il raggiungimento del peso corporeo ideale e il conseguente buon funzionamento ormonale. Se la paziente è normopeso ma stesse seguendo una dieta ipocalorica (1300-1400 kcal) è bene aumentare gradualmente il contributo di calorie, fino a portarla ad una dieta normocalorica che assecondi un metabolismo più attivo.

Proteine
Le proteine sono di importanza fondamentale per l’amenorrea ipotalamica: il contributo proteico deve essere leggermente superiore al classico 1 g/kg che viene consigliato per un fabbisogno “normale”. Le proteine diventano un importante stimolo sia per la produzione di ormoni ipotalamici e ipofisari, sia per il corretto funzionamento ovarico.
Le fonti proteiche da prediligere sono, nell’ordine, quelle di uova (biologiche), pesce azzurro pescato in mare (non di allevamento), carne (allevata al pascolo). 
In misura minoritaria si possono utilizzare anche formaggi (ma che siano formaggi “veri”, non fiocchi di latte, mozzarelle light e sottilette!) e proteine vegetali da legumi, tempeh e tofu biologici, burger vegetali a base di lupini o farina di canapa. L’uso eccessivo di prodotti proteici a base vegetale si rivela spesso inutile o addirittura controproducente in caso di amenorrea: le motivazioni hanno a che fare con la qualità aminoacidica e gli antinutrienti (lectine, fitati, ossalati, inibitori della tripsina) che si trovano in questi alimenti. Un basso valore di biodisponibilità proteica, come quello delle fonti proteiche vegetali, non garantisce uno stimolo sufficiente forte a livello ipotalamico e gonadico; la concomitante presenta di antinutrienti determina inoltre una minor disponibilità di quei minerali e vitamine importanti a ripristinare l’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-gonadi.

Non sempre è facile riuscire a far accettare alla paziente indicazioni alimentari che prevedano un consumo di prodotti animali quasi sicuramente superiore a quella che è stata l’abitudine sino a quel momento: in parte per via delle informazioni sbagliate e parziali che circolano in merito al consumo di proteine, in parte perché frequentemente carne, pesce e uova rimangono alimenti-tabù, di cui si ha paura. Ecco che quindi è necessaria l’assistenza di un professionista capace di trasmettere il messaggio corretto circa il consumo di questi alimenti, di insegnarne l’importanza terapeutica e di dare suggerimenti riguardo gli acquisti e i metodi di cottura.

Grassi

I grassi sono forse anche più importanti delle proteine per superare un’amenorrea ipotalamica: i grassi sono un nutriente essenziale per il cervello, ed è proprio dal cervello che nasce il problema. Oltre a nutrire i neuroni e favorire gli scambi cellulari, dai grassi vengono prodotti ormoni e cofattori indispensabili all’equilibrio endocrino. 
Il nostro sistema ormonale risente della carenza di grassi già nel giro di poche settimane: non è infrequente che una donna abbia ritardi nel ciclo già dopo un mese di dieta ipolipidica. Più a lungo si protrae la carenza, più sarà difficile che il ritorno ad un’alimentazione equilibrata e normolipidica garantisca una risoluzione definitiva.
I grassi da prediligere sono quelli monoinsaturi (olio extravergine d’oliva, noci di Macadamia o avocado).
I grassi polinsaturi dovrebbero essere presenti in piccole quantità quotidiane, con predilezione di quelli della serie omega3: pesce mediterraneo, alghe, olio di semi di lino. In misura minoritaria si dovrebbe introdurre anche frutta secca non trattata, ricca di omega6: noci, nocciole, mandorle, semini di zucca o girasole o sesamo. Va ricordato che omega3 e omega6 sono in competizione: l’eccesso dell’una o dell’altra serie determina effetti avversi sull’organismo.
I grassi saturi non dovrebbero mai mancare nell’alimentazione di chi soffre di amenorrea ipotalamica, poiché è da essi che si ha il maggiore stimolo alla produzione ormonale: ovviamente si devono scegliere fonti naturali di grassi saturi, a causa delle differenti forme chimiche presenti. I grassi saturi utili all’equilibrio endocrino sono quelli a media catena, presenti nel tuorlo di uova allevate all’aperto, carne di animali allevati al pascolo, burro di montagna o ghee, olio di cocco estratto a freddo. Invece, grassi saturi a lunga catena come il palmitico e il miristico, potenzialmente dannosi, sono contenuti in olio di palma, olio di colza, formaggi industriali, animali allevati intensivamente.

Una tipologia particolare di grasso è il colesterolo: esso fornisce lo scheletro di base da cui vengono prodotti tutti gli ormoni sessuali. Ne avevo parlato qui.

Carboidrati

Ho parlato diverse volte nel sito dell’importanza dei carboidrati, soprattutto sul metabolismo tiroideo: ad esempio in questo articolo. Diete troppo povere di carboidrati, quando vengono protratte a lungo nel tempo, determinano una condizione di ipotiroidismo che, quando trascurata, può diventare cronica. Una tiroide che lavora poco determina a cascata l’ipofunzionamento di altre ghiandole endocrine, tra cui ipotalamo e gonadi. Se l’ipofunzione tiroidea è stata causata dalla restrizione di carboidrati è sufficiente aumentare la loro quota per ristabilire un metabolismo attivo: l’importante è scegliere carboidrati da fonti corrette.
Nello sblocco dell’amenorrea ipotalamica i carboidrati da prediligere sono quelli complessi di riso, patate (normali e americane), cereali in chicchi come farro, orzo e miglio. Potrebbe essere consigliabile limitare l’introito di glutine da frumento, poiché diversi studi dimostrano una correlazione tra amenorrea e gluten-sensitivity: è possibile sostituire la pasta normale con pasta di farro, riso e cereali in chicchi, mentre per il pane ci si può orientare verso quello di segale al 100%. In linea generale è comunque bene limitare l’apporto di farinacei in favore di patate e cereali in chicchi.

Non è assolutamente necessario, e anzi in certi casi risulta essere controproducente, mangiare cereali solo ed esclusivamente se integrali: l’amenorrea si accompagna quasi sempre anche a carenze minerali e vitaminiche, che potrebbero essere significativamente peggiorate da un eccessivo apporto di fibra vegetale. E’ invece possibile ruotare i diversi tipi di cereali durante la settimana: ad esempio alternare farro integrale e perlato, orzo decorticato e perlato, riso basmati, semintegrale, rosso o nero.

I limiti della dieta per amenorrea ipotalamica

Leggendo quanto ho scritto finora sembrerebbe essere molto semplice realizzare una dieta per una ragazza che soffra di amenorrea ipotalamica: si danno sufficienti calorie, si fa una corretta ripartizione dei macronutrienti, si controlla che non ci siano carenze minerali o di vitamine (sopperendo con eventuale integrazione adeguata). Si cerca di educare alle materie prime naturali, non si fanno mancare fonti di colesterolo, si limita la frequenza di consumo del glutine.
Tutto qui?
Purtroppo no. Come scritto nel precedente articolo, che vi invito a rileggere con attenzione, molto spesso l’amenorrea ipotalamica si accompagna ad un pessimo rapporto con il cibo: trascorsi di anoressia o DCA, ortoressia, rigido controllo di quanto si mangia, manie ossessive verso il cibo.
Il rischio di dare “una dieta” per sostenere l’equilibrio ormonale è che lo schema venga vissuto in modo deleterio dalla paziente: se anche seguisse alla lettera le indicazioni di quantità e qualità del cibo, ma continuasse a vivere con oppressione e senso di costrizione il rapporto con il cibo, difficilmente si riuscirebbe ad avere beneficio per l’ipotalamo. L’alimentazione, anche se più varia, completa e bilanciata, continuerebbe ad essere uno stress mentale non indifferente, che chiaramente andrebbe a fomentare il circolo vizioso da cui l’amenorrea si è generata.

Se da un lato è necessario lavorare dal punto di vista psicologico per oltrepassare pensieri e modi di agire disfunzionali (terapia cognitivo-comportamentale), d’altra parte non è possibile cambiare alimentazione senza contemporaneamente intraprendere grossi sforzi per cambiare anche il modo di rapportarsi al cibo.
In primo luogo, la paziente deve essere consapevole delle proprie sensazioni fisiche: stanchezza, appetito o inappetenza, disturbi digestivi o intestinali, sono tutti parametri importanti per la valutazione dell’efficacia dell’alimentazione; ma sono focus imprescindibili anche per riconquistare la consapevolezza delle esigenze del proprio corpo. Senza autoconsapevolezza la dieta rimarrà sempre e solo uno schema da ripetere all’infinito: al contrario, il piano terapeutico dovrà prevedere una fase finale nella quale la paziente mangia certe quantità di cibo non “perché sono state prescritte”, ma perché assecondano le esigenze del proprio corpo. Magari, grazie all’autoascolto, ci saranno giorni in cui le quantità vengono aumentate in modo naturale rispetto alle iniziali prescrizioni alimentari (fase preciclo, periodo di maggiore impegno fisico, cambio di stagione tra autunno e inverno o estate e autunno…), e altri giorni in cui vengono diminuite in modo altrettanto naturale (ad esempio quando viene diminuita l’attività fisica o in giorni particolarmente afosi, quando l’appetito cala).
In secondo luogo, la sinergia tra dietista e paziente deve mirare a superare schematismi alimentari che la ragazza si è autoimposta. Ad esempio, non è infrequente che una ragazza che abbia sofferto (o soffra tuttora) di DCA consumi quantità spropositate di verdura per saziarsi senza sensi di colpa, sostituisca carboidrati complessi con quelli della frutta, abusi di dolcificanti artificiali, sia vittima di fobie o estremismi alimentari infondati. Passo dopo passo deve essere guidata a oltrepassare questi limiti ossessivi che non solo non apportano beneficio alla salute, ma diventano una fonte di ansia costante, oltre che un deleterio pretesto per non mettersi veramente in gioco nel cambiamento.

In quest’ottica, si deve sempre avere ben chiaro l’importanza di lavorare su tre punti:
1. Reintrodurre con gradualità tutti gli alimenti-tabù, di cui la ragazza ha paura. In genere sono alimenti molto calorici o protagonisti del pressapochismo dell’informazione alimentare: pizza e cioccolato, uova e banane, gelato e pasta, carne rossa e di maiale, mozzarella… Alimenti che fanno paura perché “molto grassi”, “con troppi carboidrati”, “che fanno male alla salute”. Finché si continuano a porre veti ad alcuni alimenti la loro portata deleteria sarà sempre molto alta e potrebbero causare angoscia e senso di “sporcizia” (molte ragazze definiscono proprio come “sporca” la sensazione che provano quando non mangiano come dovrebbero).
Per alcuni degli alimenti-tabù si verifica il problema della sensibilizzazione al consumo: è chiaro, ad esempio, che non è salutare mangiare tutti i giorni dolci, ma per chi ha un rapporto conflittuale con il cibo è deleterio anche non mangiarli mai, poiché in questo modo si carica il cibo di un misto di emozioni. Paura, disgusto, rivalsa, eccessivo controllo, tentazione… Tutto condensato in una fetta di torta, tutto pronto a esplodere nel momento in cui quella fetta di torta compare ad un compleanno, un matrimonio, la vetrina di una pasticceria. E qui possiamo passare al punto successivo.

2. Nell’ottica di educare ad un rapporto armonico con il cibo, vanno inseriti anche “sgarri terapeutici”, che vengono incontro a tutti i capisaldi della dieta terapeutica per amenorrea ipotalamica: da una parte avere una dieta varia e bilanciata senza tuttavia escludere alcun alimento (che altrimenti si caricherebbe di un significato potenzialmente dannoso), dall’altra permettere alla paziente di uscire da quella comfort-zone entro la quale sente di avere il controllo, ma al di fuori della quale è stressata. Spesso i limiti della comfort-zone sono estremamente stretti: solo le quattro mura domestiche, solo una scarsa varietà di cibi e di metodi di cottura, solo in presenza di certe condizioni di tranquillità la paziente riesce a mangiare senza ansia. Tutto il resto causa stress immediato: se qualcuno cucina al posto suo, un invito a cena, la mancanza di un ingrediente “fondamentale” in dispensa, la rottura della bilancia pesa-alimenti, la presenza di un clima di tensione a tavola… Si deve lavorare sia sul lato comportamentale (descritto al punto 3) sia sul lato alimentare: con una corretta guida e con suggerimenti mirati il piano dietetico deve prevedere anche gli “sgarri”, facendo attenzione a non proporre mai una situazione verso la quale la paziente non è ancora pronta. Non ha importanza la concreta entità calorica dello sgarro, quanto la rottura del tabù: ci sono donne che, anche nei periodi più ossessivi, non hanno mai avuto problemi a concedersi una sera a settimana una pizza con birra e poi gelato; ce ne sono altre per le quali anche un semplice branzino al forno ordinato al ristorante è motivo di forte ansia. Con estrema dolcezza, pazienza e gradualità si deve lavorare di settimana in settimana all’introduzione di questi “sgarri”, allargando i confini della comfort-zone. E’ importante fare in modo di introdurre lo “sgarro” in un clima sereno e possibilmente conviviale, cercando, dove possibile, anche la collaborazione di un genitore o del partner: a volte anche solo delegare ad altri la scelta di quello che si mangia rappresenta la rottura di un tabù. 
Ovviamente alcuni sgarri dovranno essere mantenuti tali, in virtù del principio di salubrità (…la pizza tre volte a settimana è buona, ma non è sana!); altri invece potranno essere inseriti con maggiore frequenza.

3. Da ultimo, è importante la collaborazione tra dietista e psicologa per aiutare la paziente ad allentare il potere creato dalla reiterazione di riti, pensieri ossessivi e manie legate al cibo, condizioni che non fanno altro che fomentare l’ansia e lo stress legato all’alimentazione. Gli esempi potrebbero essere moltissimi: mangiare solo utilizzando il cucchiaino come posata, o solo se la tavola è apparecchiata in un certo modo; andare in crisi se al pasto manca la canonica porzione di verdura; non mettere mai il “proprio” cibo a contatto con quello altrui (anche cucinando la stessa cosa in due pentole divise); pesare al grammo qualsiasi pietanza; rifiutare qualsiasi alimento “complesso” con più ingredienti (polpette, gnocchi, ravioli, scaloppine: in sostanza tutto ciò in cui non si riescano ad isolare i quantitativi precisi di ogni componente). 
Tutte queste manie o fobie devono essere superate (oppure vissute senza angoscia, quasi con autoironia) per poter veramente ottenere un rapporto equilibrato con il cibo, che in caso contrario continuerà a presentare insidie e pericoli per l’equilibrio psicofisico.

In conclusione…
Come più volte ribadito, l’amenorrea ipotalamica spesso nasce da una condizione di iponutrizione a cui si sommano pensieri e comportamenti disfunzionali legati al cibo. Per poter superare l’impasse si deve lavorare sul lato psicologico, mirando al superamento di ossessioni e fobie alimentari, e contemporaneamente adottare uno stile alimentare che sia vario e nutriente e che provveda a fornire micro e macronutrienti utili allo sblocco dell’asse endocrino sbilanciato. Non deve mancare la giusta quantità calorica quotidiana, ripartita tra grassi (anche colesterolo), carboidrati complessi e proteine animali da fonti *consapevoli*; devono essere compensate eventuali carenze vitaminiche e minerali; ma soprattutto, e qui gioca di nuovo un ruolo fondamentale il sostegno psicologico, si deve pensare ad allargare i confini della “comfort-zone” alimentare della paziente.

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