Chi mi conosce sa che ho un fratello di 19 anni che sta frequentando la facoltà di Neuroscienze e Scienze Cognitive in Inghilterra; qualche settimana fa mi aveva parlato di un articolo scientifico presentato a lezione riguardo la probabile correlazione tra diabete e Alzheimer. Sapevo già che chi soffre di diabete ha un rischio maggiore di contrarre la sindrome di Alzheimer, ma non avevo mai indagato le concrete correlazioni tra le due patologie. Ho trovato l’articolo molto interessante, e per questo lo presento anche a voi.
La sindrome di Alzheimer è una patologia che colpisce i neuroni e mina le capacità cerebrali di chi ne soffre: si perde la memoria, la cognizione spazio-temporale, la cognizione di sé e del mondo reale. Ne soffrono circa 26 milioni di persone al mondo, con una prevalenza maggiore tra le donne e nelle fasce d’età superiori (i casi sotto i 65 anni sono molto rari).
Le cause che portano alla degenerazione delle cellule cerebrali sono ancora in gran parte sconosciute, ma le ricerche più recenti mostrano il ruolo chiave svolto dall’insulina.
Facciamo un passo indietro: il glucosio è la fonte di energia principale del nostro organismo; il suo ingresso nelle cellule è regolato dall’insulina, un ormone secreto dal pancreas. Per farvi un esempio, è come se l’insulina fosse la chiave che apre le porte posizionate sulla membrana cellulare, permettendo l’ingresso del glucosio e dunque il suo utilizzo a scopo energetico.
Il diabete di tipo 2 è una patologia legata a una disfunzione dei meccanismi dell’insulina: l’eccesso di glucosio in circolo porta ad un’ipersecrezione di insulina a cui gli organi interni non riescono a far fronte. Si parla di insulino-resistenza: nonostante lo stimolo offerto dall’insulina, le nostre cellule diventano meno abili a introdurre il glucosio, che persiste a rimanere in circolo promuovendo fenomeni di infiammazione organica e formazione di placche ateromasiche. L’insulino-resistenza è prodroma del diabete: nelle fasi iniziali della patologia è ancora possibile porre rimedio attraverso una corretta alimentazione e attività fisica, ma via via che la condizione si consolida la situazione diventa difficilmente irreversibile.
Parlo di corretta alimentazione perché nella maggior parte dei casi il diabete di tipo 2 è dovuto a eccessi alimentari perpetuati nel tempo: eccesso di zuccheri, carboidrati raffinati, alimenti ad alto indice glicemico e grassi. Fa eccezione il diabete dell’anziano, in cui subentra anche una perdita della funzionalità pancreatica.
Suzanne de la Monte, ricercatrice e docente della Brown University (USA), è stata la prima ad aver nominato la sindrome di Alzheimer “diabete di tipo 3”, o diabete cerebrale: gli studi più recenti dimostrano che uno dei fattori in gioco nella sua insorgenza è proprio l’insulino-resistenza a livello cerebrale.
Sappiamo che il cervello è in grado di usare solo il glucosio a scopo energetico; a differenza di tutti gli altri distretti corporei, non usa né grassi né proteine per il proprio sostentamento. In una condizione di insulino-resistenza le cellule cerebrali sono meno in grado di introdurre ed utilizzare il glucosio, e questo si traduce con una perdita progressiva delle funzioni del cervello. Non solo. In una condizione di normalità l’insulina è in grado di regolare le funzioni dell’ippocampo (centro responsabile della memoria generale e spazio-temporale) e del lobo frontale (responsabile del comportamento). Regola inoltre la funzione dell’acetilcolina, un neurotrasmettitore importantissimo nei processi di memoria e apprendimento.
Uno sbilanciamento della funzione dell’insulina, dunque, causerebbe nel giro di poco danni a memoria, comportamento e apprendimento. Con il tempo porterebbe a una progressiva degenerazione cerebrale.
Un altro fattore che entra in gioco nell’insorgenza dell’Alzheimer è l’accumulo di beta-amiloide tra i neuroni. Le placche di beta-amiloide derivano da una proteina che in condizioni di normalità svolge un ruolo di controllo e riparazione neuronale: la sua forma degenerata porta invece alla distruzione delle cellule nervose, specialmente nelle aree deputate al ragionamento e alla formazione del pensiero. L’enzima che si occupa della distruzione della beta-amiloide è lo stesso che degrada l’insulina: una disfunzione insulinica implica dunque un maggiore accumulo di queste placche, danno che va ad accumularsi a quelli citati in precedenza.
Benché l’Alzheimer continui ad essere una patologia multifattoriale, i dati a disposizione dei ricercatori portano a credere che la disfunzione insulinica giochi un ruolo chiave nell’eziologia. Dal momento che le abitudini alimentari sono in grado di influenzare notevolmente l’equilibrio insulinico, è fondamentale educarsi ad un corretto stile di vita per prevenire Alzheimer.
Chi soffre di diabete di tipo 2 è maggiormente a rischio di demenza senile rispetto al resto della popolazione: ciò è preoccupante se si pensa che al giorno d’oggi moltissime persone al di sotto dei 50 anni sono diabetiche. Significa che queste stesse persone potrebbero sviluppare la sindrome di Alzheimer ben prima della terza età, poiché il processo di degenerazione cerebrale inizierebbe prima.
Secondo uno studio portato avanti da Suzanne Craft dell’Università di Washington, una cattiva alimentazione può portare a sviluppare danni neurologici anche in chi non soffre di diabete. Il team della Craft ha sottoposto un gruppo di volontari non-diabetici a un mese di dieta ricca di grassi saturi e di zuccheri: in sole quattro settimane questi soggetti presentavano livelli più alti di beta-amiloide nei fluidi cerebrospinali rispetto al gruppo di controllo, che aveva seguito una dieta equilibrata. Se protratte nel tempo, le cattive abitudini alimentari possono portare alla formazione di considerevoli accumuli di beta-amiloide che, di fatto, uccidono le cellule cerebrali.
Purtroppo, la maggior parte degli alimenti che andrebbero evitati per mantenere un cervello sano sono proprio quelli su cui le persone indulgono con più frequenza, pensando che siano solo un peccato di gola e che al più causino un aumento di peso: mi riferisco a patatine confezionate e fritte, cibo da fast-food, dolci, eccesso di pane e pasta, grassi saturi contenuti in lardo, pancetta e salumi, bevande zuccherate, alcolici, pop-corn da cinema, merendine confezionate.
Quattro settimane di dieta sbilanciata portano alla creazione di residui organici di beta-amiloide nel cervello. Le placche di questa sostanza ledono le funzioni cerebrali. Anno dopo anno, aumentano il rischio di Alzheimer, malattia nella quale la persona non è più cosciente di sé e della realtà che la circonda.
Quello che mettiamo nel piatto ogni giorno non ci dice solo come ci vedremo allo specchio, ma in che modo invecchieremo, e quanto saremo consapevoli di noi stessi tra venti o cinquant’anni.
Bibliografia
Eat your way to dementia – B.Trivedi, New Scientist 01 September 2012
Arnold et al. – Demonstrated brain insulin resistance in Alzheimer’s disease patients is associated with IGF-1 resistance, IRS-1 dysregulation, and cognitive decline – The Journal of Clinical Investigation April 2012
E.Steen, B.M.Terry, E.J.Rivera, J.L.Cannon, T.R.Neely, R.Tavares, X.J.Xu, J.R.Wands, S.M.de la Monte – Impaired insulin and insulin-like growth factor expression and signaling mechanisms in Alzheimer’s disease is this type 3 diabetes? – J Alzheimers Dis. 2005 Feb;7(1):63-80
9 Comments
Molto interessante, ma, come ho già detto, se alla fine c’è l’immagine degli eccellenti hamburger di Shake Shack, a me viene voglia di prendere un aereo per NY solo per ordinarmene una dozzina 😉
Maddai, sembrano plastica anche solo in fotografia 🙂
Fidati, li ho provati 😉
Comunque, ora sto leggendo The China Study… lo hai letto e hai opinioni a riguardo?
Letto l’anno scorso: ottimo libro, basato su una bibliografia vastissima e rigorosissima.
Il difetto maggiore che ho trovato -forse l’unico- è il terrorismo fatto verso le proteine animali: mi sarebbe piaciuto saperne di più riguardo agli aminoacidi usati per gli esperimenti e la fonte proteica elitaria negli studi di popolazione, prima di arrivare a stigmatizzare tutta la carne. Tantopiù che nei primi capitoli, se non ricordo male, si continua a citare la caseina, aminoacido non essenziale contenuto primariamente in latte e latticini. E poi: la carne che si prende in considerazione è imbottita di fitochimici volti a far diventare un vitello adulto nel giro di pochi mesi? E’ cotta al BBQ? E’ accompagnata da altri cibi acidificanti?
anche io ho letto the china study e l’ho trovato, da profana, davvero interessante.
Sicuramente è interessantissimo e -finalmente- apre gli occhi su tanti aspetti dell’alimentazione correlata alla salute con un approccio scientifico molto rigoroso. L’unica pecca è non aver sottolineato l’importanza della qualità delle materie prime di provenienza: nutrirsi di polli da allevamento intensivo non è sicuramente lo stesso di mangiare quelli ruspanti. Poi sono d’accordo con l’autore nel dire che l’introito proteico attuale è spesso eccedente al reale fabbisogno di una persona.
Bisogna anche tenere presente che lo studio è presentato con l’ottica di un americano: senza voler minimizzare i problemi di cattiva alimentazione italiana, da questo punto di vista hanno una situazione drammatica che giustifica in parte i toni, oltre al fatto che essendo un libro per il grande pubblico deve operare qualche semplificazione a livello di comunicazione per evitare di distrarre troppo dal messaggio.
Appunto perché si tratta di un libro di divulgazione per tutta la popolazione avrei quantomeno fatto un capitoletto per spiegare le basi di un’alimentazione che privilegia la qualità alla quantità.
Come hai detto tu, è rivolto principalmente all’America dove stanno messi *molto* peggio di noi in quanto ad alimentazione: la loro carne sì che è imbottita di fitofarmaci! Tenendo presente questo, sarebbe stato bello se l’edizione italiana ne avesse tenuto conto e avesse fatto una prefazione per sottolineare le differenze tra dieta mediterranea media e dieta americana media: per quanti sbagli facciano gli italiani nell’interpretare ciò che si intende per ‘dieta mediterranea’, credo comunque che mediamente abbiamo un’attenzione al cibo che in America latita.
Ecco, queste sono mie libere opinioni, non dati di fatto…